5 dubbi che restano dopo la morte di Anis Amri

A Sesto San Giovanni un controllo di polizia ha condotto all’uccisione di Anis Amri, il sospetto attentatore del mercatino di Breitscheidplatz a Berlino. Ma restano diversi punti oscuri sulle indagini e sulla successiva caccia all’uomo.

Sgombriamo innanzitutto il campo da ogni possibile equivoco: non abbiamo alcuna intenzione di iscriverci al partito dei complottisti paranoici e, fino a prova contraria, abbiamo piena fiducia che le dichiarazioni delle autorità italiane e tedesche – peraltro tra le più brave (le tedesche fino a lunedì scorso, almeno) a sventare minacce terroristiche sui loro territori – corrispondano al reale svolgimento degli eventi. E però, allo stato attuale dei fatti qualche perplessità resta, tanto su come sono state condotte le indagini (prima e dopo l’attacco del 19 dicembre) quanto sulle modalità con cui le autorità tedesche hanno divulgato le loro informazioni all’opinione pubblica. Abbiamo provato a raccoglierle in cinque domande aperte.

Perché le forze speciali non hanno individuato subito un indizio così decisivo come i documenti di Anis Amri? Perché il tunisino li ha lasciati a bordo del camion?

Perché era necessario isolare il camion affinché non venisse contaminato in attesa di essere annusato dai cani poliziotto, è stato detto. Ad ogni modo, dopo aver perso ore dietro alla falsa pista del pachistano, poi rilasciato, resta il dubbio che forse un indizio così macroscopico come dei documenti in bella vista a bordo del camion poteva essere rinvenuto con maggiore tempestività, e non addirittura martedì pomeriggio. Alcuni però ritengono che il ritardo nel rendere nota l’informazione e la caccia al pachistano potrebbero aver fatto parte di una strategia di depistaggio della polizia. La seconda domanda se la stanno ponendo in molti in queste ore, e non necessariamente necessita di una risposta complottista. Anche A Parigi per la strage di Charlie Hebdo e a Nizza era successa la stessa cosa, e gli analisti ritengono che i terroristi lo facciano perché vogliono “firmare” il loro gesto, essere conosciuti ed emulati, e non sentirsi dei fantasmi in fuga. Altra spiegazione addotta dagli esperti: gli attentatori sanno che difficilmente usciranno vivi dalla caccia all’uomo conseguente al loro gesto e, anzi, cercano il martirio. Ma allora perché, si potrebbe obiettare, Amri è fuggito dal luogo della strage invece di completare l’operazione con altre armi una volta fermatosi il camion, come peraltro è consigliato nel manuale pubblicato a novembre dall’Isis?

Come mai Lutz Bachmann di Pegida, twittava “È stato un tunisino” quando le indagini ufficiali ancora si orientavano sul 23enne pachistano?

Lutz Bachmann, Il leader del movimento xenofobo e anti-Islam Pegida, ha twittato alle 22:16 di lunedì sera di essere in possesso di informazioni riservate della polizia di Berlino che portavano a un “musulmano tunisino”. Questo in un momento in cui le indagini ufficiali si concentravano ancora sul 23enne pachistano, poi rilasciato. La polizia smentisce fermamente le illazioni di Bachmann e ritiene che il fondatore di Pegida abbia indovinato per un mero “colpo di fortuna”, ma in Germania si solleva qualche voce scettica, anche a causa della rilevante presenza di estremisti di destra tra le file della polizia (si veda il caso dei cosiddetti Reichsbürger) e del poco tempestivo ritrovamento dei documenti di Amri.

Come ha potuto un ricercato del calibro di Anis Amri lasciare la Germania, transitare per la Francia e arrivare in Italia?

Questa è una delle critiche più dure che in queste ore vengono mosse alle forze di sicurezza non solo tedesche, ma anche francesi e italiane. Nel momento in cui era il terrorista più ricercato d’Europa, armato, con una  ricompensa di centomila euro spiccata contro di lui e foto segnaletiche diffuse ovunque, Anis Amri ha infatti potuto lasciare la Germania in treno, spostarsi da Chambery, in Savoia, fino a Torino, poi da Torino a Milano e da Milano a Sesto San Giovanni. Il 23enne tunisino ha in tal modo varcato indisturbato almeno due frontiere internazionali. Un grave buco per le intelligence europee, che ora dovrà essere chiarito.

Perché negli scorsi mesi non si è fatto tutto il possibile per espellere da Italia e Germania un uomo con una storia di violenza e di radicalizzazione così evidente e pericolosa?

Anis Amri era stato classificato come “soggetto pericoloso”. Il tunisino aveva soggiornato dal 2011 al 2015 in Italia, prima a Lampedusa, dove partecipò all’incendio del centro di accoglienza, poi in carcere all’Ucciardone per quattro anni, dove si sarebbe radicalizzato minacciando peraltro un detenuto cristiano di tagliargli la testa. La richiesta di espulsione avanzata dall’Italia è stata respinta dalla Tunisia e così Amri si è spostato in Germania. Qui, ad aprile 2016 aveva presentato una richiesta d’asilo respinta però in estate. Da allora era “tollerato” sul suolo tedesco grazie al dispositivo giuridico della Duldung, un temporaneo differimento della procedura di espulsione. Il respingimento sarebbe stato rimandato anche perché Anis A. era privo di documenti e dalla Tunisia negavano che il giovane fosse un loro cittadino. Sempre secondo Die Welt quei documenti di identità sarebbero stati inoltrati “casualmente proprio il giorno dopo l’attentato”. Ad agosto 2016 Anis Amri era stato fermato in possesso di un documento italiano falso presso Friedrichshafen. Le forze dell’ordine si sono messe sulle sue tracce indagando su scala federale. Secondo Süddeutsche Zeitung Anis Amri era attivo nella cerchia del predicatore salafita Abu Walaa, arrestato lo scorso novembre, e le forze dell’ordine tedesche erano sulle sue tracce su scala federale. Poi, dal mese scorso, si erano perse le sue tracce. Com’è stato possibile?

Perché, al netto dell’eroismo dei due poliziotti di Sesto, non si è fatto tutto il possibile per prendere vivo Amri, potenziale fonte di informazioni importantissime?

L’operato di Christian Movio e di Luca Scatà, i due giovani agenti in servizio a Sesto che hanno ucciso Amri, è stato encomiabile, come giustamente ricordato dal ministro degli Interni Minniti e dal premier Gentiloni e rimarcato dai ringraziamenti giunti dai vertici tedeschi. Il pericolo corso da Movio e Scatà, quest’ultimo 29enne e ancora in prova, non attenua e anzi forse accentua la questione posta: com’è stato possibile che Amri si sia mosso così liberamente su scala internazionale? Perché non si è stati in grado di stringere una rete più efficace intorno al sospettato in modo da concludere l’operazione con un arresto, anziché con una rocambolesca uccisione arrivata dopo un casuale controllo di routine? Arresto, peraltro, che avrebbe permesso alla giustizia di fare il suo corso facendo scontare ad Amri una pena severa, ma che soprattutto avrebbe potuto condurre, mediante interrogatori, a informazioni rilevanti sulla sua rete di contatti, su eventuali complici, su possibili ulteriori scenari terroristici.

Alla luce di quanto sappiamo finora può nascere il sospetto che l’uccisione di Anis Amri sia stata una parziale “pezza” degli inquirenti per risolvere in un colpo solo tre ordini di problemi: l’imbarazzo per il grossolano errore dell’arresto del 23enne pachistano, l’aver lasciato a piede libero per mesi un “soggetto pericoloso” come Amri e la necessità di tranquillizzare l’opinione pubblica. Non possiamo credere che sia così. Non abbiamo prove a sostegno di una tale ipotesi. Quel che possiamo affermare con certezza è che non abbiamo bisogno di uno Stato (o di un’Europa) balia che ci tenga calmi con puerili rassicurazioni a posteriori. La minaccia terroristica è pervasiva e imponderabile, e nessuno può garantire sicurezza totale. Però è lecito aspettarsi dalle autorità una comunicazione trasparente e la capacità di neutralizzare almeno quei pericoli che già si erano ampiamente manifestati come tali.

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