Un amore in viaggio sul treno per Berlino Ovest

Il cielo nascosto di Mariarca Guglielmo

(dal Workshop di Scrittura Creativa “Scrittori Emigranti”)

La mattina in cui conobbi Pierre, venivano giù dal cielo pezzi di grandine grossi come noci. Aspettavo il tram delle 8:21, al riparo del cornicione di un palazzo. Non durò molto, ma per alcuni minuti il cielo di Berlino sparì sotto il carico pensante di quelle sfere di ghiaccio. Fu così che non lo vidi passare. Lo scrosciare della grandine coprì anche i rumori delle ruote sui binari. Smise dopo pochi minuti. Tirai sotto il mento il bavero del cappottino di lana che mi pizzicava la pelle e mi rassegnai ad aspettare il prossimo. Ai miei piedi si era posato, tra gli altri, un chicco enorme. Mi chinai per raccoglierlo e nonostante il freddo lo lasciai sciogliere nel palmo della mano. Rimasi ad osservare come quel pezzo di ghiaccio mutasse forma così velocemente, osservando incredula quel cambiamento repentino.

Rischiai quasi di perdere anche l’altro tram. Salii in fretta, strofinandomi la mano bagnata sul cappotto rugoso. Diedi le monete al conducente e andai a sedermi in fondo, accanto al finestrino.

Zia Eike era la sorella più piccola di mia madre e aveva avuto da pochissimo due gemelline. Viveva a est della città e poiché zio Carl lavorava sulla Ku’damm, restava da sola tutto il giorno a badare a loro, così cercavo di darle una mano.
Non lo vidi salire, ma d’un tratto l’occhio sinistro cominciò a battermi e sentii addosso una strana agitazione. Mi guardai intorno senza motivo, quando notai che di fronte a me si era seduto un uomo con in mano una grossa scatola di cartone. Aveva i lineamenti sottili e spigolosi, gli occhi chiari e un cappello decisamente troppo impegnativo per la sua giovane età. Quello che mi colpì però fu il nome sulla scatola. Scritto a caratteri grandi e con una grafia leggera c’era il mio nome: “Siegrid”. L’occhio prese a pulsare ancora più in fretta e quasi trasalii quando mi rivolse la parola. Fu un semplice saluto, pronunciato con un accento lontano e un tenero sorriso che mi fecero avvampare le guance fredde e pallide.

Risposi timidamente, poi impacciata e nervosa indicai con l’indice della mano che mi tremava per l’emozione, il nome sulla scatola.
“Stavo osservando la scritta…quello è il mio nome”.
“È un bellissimo nome” Rispose lui, che nel frattempo si era tolto il capello mostrando il suo bel volto. “Anche mia sorella si chiama così, il pacco è suo”.
Furono le uniche parole che scambiammo quel giorno. Mi alzai di scatto, non avevo prenotato la fermata e il tram frenò bruscamente, quando pigiai il pulsante.

La mattina seguente presi il tram saltando di proposito una corsa, con la speranza di rivederlo. Esattamente due fermate dopo la mia, salì anche lui. Aveva in mano un’altra scatola. Sentii di nuovo quella strana agitazione provata il giorno precedente. Lui venne a sedersi ancora di fronte a me. Rimasi in silenzio a scrutare fuori dal finestrino col cuore che mi batteva all’impazzata. Ogni tanto volgevo uno sguardo furtivo, quando lui non guardava. Sulla scatola c’era un altro nome, con la stessa grafia precisa e ordinata: “Pierre”. “Questo” disse lui, richiamando la mia attenzione tamburellando il dito sul cartone “è il mio nome: Pierre!”. La sua pronuncia era davvero tremenda e mi fece scappare una risata. Ridemmo insieme, poi lui mi porse la mano. “Molto piacere di conoscerla Fräulein Siegrid”. Avvicinai il palmo della mia mano così piccola in confronto alla sua e lasciai che me la stringesse. Quella mattina non andai dalla zia. Pioveva ancora e ci rifuggiamo in un caffè sulla Skalitzer Strasse. Non venivo mai in quella zona e tutto mi sembrava così esotico e diverso, anche se si trattava della mia città. Appresi che Pierre era di padre francese e madre tedesca e che quei pacchi glieli spedivano i suoi genitori, che erano rimasti in Francia e che presto avrebbero raggiunto lui e sua sorella a Berlino.

Le mattine si susseguirono ai pomeriggi, alle settimane e ai mesi. Il tempo trascorreva felice con il mio bel fidanzato francese, finché una mattina le gemelle si ammalarono. Zia Eike, mi chiese se potevo restare a dormire con loro per darle una mano ed io accettai con piacere. Dissi a Pierre che per qualche giorno non ci saremmo visti. Sarei rimasta ad est dalla zia.
Era trascorsa quasi una settimana e le gemelle, che avevano avuto la febbre molto alta per un’intera settimana, stavano finalmente meglio. L’indomani mattina sarei potuta finalmente tornare dal mio Pierre. C’era un’aria pesante, era agosto inoltrato e causa il caldo appiccicoso non riuscii a chiudere occhio.

Era la notte del 12 agosto 1961, la notte in cui le autorità della Repubblica Democratica Tedesca tramarono alle nostre spalle, costruendo un muro lungo più di 155 km, separandoci non solo dal resto della città ma dal resto del mondo. Il più grande atto di prigionia massiva mai fatto nella storia.

Era già passato un anno ormai e il filo spinato dal quale riuscivo a intravedere Pierre e la mia famiglia, era stato sostituito da un alto muro di pietra. Come fossero riusciti a costruirlo in così poco tempo rimase un mistero. Perché l’avessero fatto era follia pura. Non ci si poteva nemmeno lamentare, perché c’erano occhi e orecchie ovunque. Non ci si fidava più di nessuno e così la gente smise anche di parlare. Zio Carl addirittura sembrava favorevole “siamo al sicuro dalle mani dei nazisti, devi essere contenta Siegrid” . Avrei voluto gridargli contro, gettare la sbobba che mangiavamo con parsimonia, visto che i rifornimenti arrivavano una volta a settimana e fargli sapere che se avessi avuto le ali sarei già andata via da quella follia. La zia, un tempo così dolce e serena, era ormai un vecchio ricordo, ubbidiva come un bravo soldato a tutto quello che le veniva chiesto, con la paura di essere interrogata, arrestata e fare la fine di tutti quelli che venivano sospettati di voler evadere ad ovest. La Volkspolizei aveva l’ordine di sparare a vista, chiunque si avvicinasse al muro. Un sacco di persone erano scappate, ma ancora di più erano quelli che avevano perso la vita, nel tentativo di farlo.

Passavo le mie giornate in silenzio a badare alle bambine, andando a dormire pregando di svegliarmi il giorno dopo in un mondo diverso, dove una città non si divide, dove le persone non si separano e dove i politici non giocano col destino degli esseri umani.
Una mattina mentre portavo le bimbe a spasso sulla Karl Marx Alle, avevo notato un uomo seguirmi. Mi voltai di scatto perché sentii quella strana sensazione che provavo ogni volta che stavo per incontrare Pierre. Era alto e magro e con i lineamenti che mi ricordavano vagamente i suoi, ma con grande delusione vidi che non era lui. L’uomo si fece più vicino e mi sussurrò qualcosa all’orecchio: “Ho un messaggio per lei da parte di Pierre”. Ebbi paura, cosa voleva quell’uomo da me? Eppure sentivo che dovevo ascoltare ciò che aveva da dirmi. Con le gambe che mi tremavano, spinsi con uno scatto il passeggino con le bambine che dormivano beate e m’infilai in un vicoletto, facendo cenno all’uomo di seguirmi.

Mi spiegò il piano in fretta, non ebbi il tempo di chiedere come faceva a conoscere Pierre, ma sentivo che potevo fidarmi di lui. Le bambine si svegliarono e iniziarono a piangere, destando l’attenzione dei passanti, così ci separammo. Quella sera stessa sarei dovuta salire sul treno che mi avrebbe portata a Berlino ovest con un’idea geniale.

Quella sera dissi a mia zia che sarei andata a casa di Steffie, una ragazzona bionda e alta che abitava a due isolati da casa degli zii. Fu molto dura per me non poter dire nulla, soprattutto lasciare lì mia zia che era diventata nell’ultimo periodo come una madre per me, ma non potevo rischiare. Abbracciai forte le bambine senza farmi vedere e sgattaiolai fuori di casa.
Incontrai quell’uomo nei bagni della stazione, non portai nulla con me, come prestabilito dal piano, mi tolsi le scarpe, respirai per l’ultima volta l’aria fredda della sera e poi fu il buio.

Mi sentii tutt’a un tratto leggera e priva di peso. Facemmo insieme una serie di passi, poi scendemmo delle scale e ne risalimmo delle altre. Finché capii che eravamo giunti sul treno. Le porte si chiusero, il treno cominciò a muoversi: eravamo partiti. Era buio pesto e sapevo che prima o poi le guardie sarebbero venute a rovistare ogni angolo di quel vagone, prima di lasciarlo partire in direzione ovest. Dopo poco, le porte dello scompartimento si aprirono, i passeggeri mostrarono i loro documenti. Gli agenti frugavano ovunque, dovevano anche avere un cane con loro, perché guaì un paio di volte. Ebbi una gran paura che mi avesse fiutata.

Avevo le ginocchia schiacciate sullo stomaco e mi sentivo soffocare, come quando da bambina mettevo la testa sotto le coperte per nascondermi dai rumori notturni, stavolta non avrei potuto alzare il lenzuolo per respirare, il mostro mi avrebbe scoperta davvero. Pensai al nomignolo con cui spesso mi chiamava: “Ma petite”. E poi mi stringeva forte. Mi ero sempre sentita a disagio ad essere così bassa e minuta, rispetto alle mie compagne di classe che erano delle vere e proprie gigantesse. Ma la natura mi aveva strizzato l’occhio, i geni di famiglia sapevano già che mi sarebbe servito essere così piccina.

Il treno si era finalmente fermato. Il cuore mi batteva forte. Sentii la porta scorrevole dello scomparto del treno aprirsi, poi la sua voce: “Siegrid, Siegrid”. “Sono qui!” risposi, con quel poco di fiato che mi restava. Poi sentii che qualcuno mi afferrava e mi tirava giù di peso dalla mensole del treno. Ed ecco che in pochi minuti, sotto gli occhi increduli degli astanti e quelli pieni di lacrime del mio amore, uscii da quelle due valigie ricucite insieme nelle quali ero rimasta nascosta per tutto il tempo. Fu così che fuggii a Berlino ovest. Invisibile agli occhi come quella mattina in cui il cielo era sparito sotto la grandine.