«Come ho spiegato il No al referendum ai miei colleghi di scienze politiche a Berlino»

In questi ultimi mesi, in Europa e oltreoceano, di esiti elettorali imprevisti se ne sono visti molti: prima la Brexit, poi l’elezione di Trump e infine la sorpresa in positivo dell’Austria con un dietrofront all’ultimo minuto che ha portato a nuove consultazioni proprio questa domenica, in concomitanza con il referendum costituzionale italiano. In una città come Berlino tutte le notizie dall’estero sono importanti, perché qui convivono tante nazionalità diverse, che in un università internazionale come la Freie Universität sono rappresentate perfettamente.

Why Trump? Dopo l’elezione di Trump è stato normale quindi, che in qualunque corso, che fosse relativo alla politica come alla letteratura, si chiedesse ai presenti americani «Why Trump?». In quel momento mi è tornato alla mente quando, qualche anno fa, erano gli americani o gli inglesi a chiederci «Why Berlusconi?». Brutti ricordi o almeno credevo che fossero brutti ricordi fino a qualche giorno fa. Devo ammettere che la risposta degli studenti statunitensi a lezione si riduceva spesso a un «Sorry» o «I don’t know, maybe Americans want a strong leader». In quei momenti di dibattito sugli Stati Uniti pensavo a quel «Why Berlusconi?» e speravo di non dover più rispondere ad una domanda simile in vita mia, perché probabilmente non avrei saputo dire altro che ovvietà come i miei coetanei statunitensi.

Il referendum. Poi, però, si è iniziato a parlare di referendum costituzionale. Che si sarebbe trattato di un voto poco prevedibile era nell’aria: il dibattito mediatico in Italia era sfuggito di mano più di una volta da entrambe le parti, il caos calmo della campagna elettorale stava andando avanti da mesi, la prima domanda dopo il «Cosa studi? «Scienze politiche» era «Voti sì o voti no alla riforma costituzionale?». È inutile parlare di quanto è stato difficile, durante il rush finale degli ultimi mesi, spiegare ad alcuni italiani a Berlino che il referendum avrebbe cambiato la costituzione, non un governo (messaggio che evidentemente non è riuscito a passare nemmeno in Italia). Poi è arrivato il referendum, e con esso anche i primi stranieri che si interessavano alla cosa, chiedendo a me italiana, e per giunta studentessa di scienze politiche, di spiegare cosa stesse succedendo nel Paese della pizza e del Colosseo.

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Spiegare le ragioni del sì. Se spiegare ad un italiano all’estero su cosa si votava e perché era giusto votare a favore (secondo il mio punto di vista) era difficile ma allo stesso tempo sconfortante, provare a spiegarlo a uno straniero si è rivelato essere un’impresa impossibile ma sicuramente più soddisfacente. Ho avuto infatti conversazioni lunghissime riguardo al referendum italiano con amiche ed amici turchi, russi, spagnoli, tedeschi, che spesso mi chiedevano di spiegare come funzionasse il sistema e tutti puntualmente, dopo che avevo sommariamente spiegato loro il meccanismo del bicameralismo paritario e la famosa navetta parlamentare, sgranavano gli occhi: «Due camere uguali?». Già, in Italia abbiamo due camere uguali ma diverse, e 945 parlamentari in tutto che hanno esattamente le stesse mansioni e gli stessi poteri, mentre Renzi vuole (voleva) diminuire il numero di parlamentari e creare una camera di rappresentanza per gli enti territoriali. «Quindi la sfida è fra conservatori e progressisti, destra e sinistra per intendersi?». La risposta era necessariamente no, la battaglia è tutti contro uno, perché Renzi ha improvvidamente voluto legare questo referendum al suo governo prima ancora di intuirne l’esito, offrendo l’occasione agli avversari di destra come di sinistra di far fronte comune per eliminare quello che ritenevano il primo problema per l’Italia.

Il trionfo del no. Quando domenica sera sono arrivati i primi exit-poll, che certificavano una larga vittoria del no, devo ammettere che non sono stata troppo sorpresa, pur avendo sperato fino all’ultimo secondo che l’Italia potesse per una volta diventare un esempio in Europa, un baluardo contro i movimenti populisti e nazionalisti che stanno gonfiando le loro fila dagli Stati Uniti alla Francia. Ho sperato di vedere in Italia un sistema istituzionale nuovo, più simile a quello di Germania, Spagna, Francia, ci ho sperato davvero ma il no ha vinto, la democrazia è così e la maggioranza decide.

Il day after. Dopo aver appreso delle dimissioni del presidente del consiglio Matteo Renzi da tutti i principali media internazionali, ovviamente ci sono state le prime domande tra i miei colleghi di facoltà. Mi aspettavo qualche commento ed è arrivato puntualmente: «Perché Renzi si è dimesso?». Ha perso il referendum e aveva detto che si sarebbe dimesso, e così ha fatto.  «E adesso?» Beh, adesso ci affideremo probabilmente a un governo tecnico per qualche mese e poi elezioni. «Ha fatto la fine di Cameron» è stata l’analisi finale di alcuni colleghi di corso. «Ha voluto incentrare un referendum su di sé e gli è andata male». Come dargli torto, di errori Renzi, proprio come Cameron, ne ha fatti tanti, ma Brexit e referendum costituzionale sono due cose diverse, e la sorte di un premier e la struttura istituzionale del Paese non dipendono l’una dall’altra. Il risultato però ha parlato chiaro: 59 percento No, 40 percento Si, quindi non ci resta che aspettare i nuovi sviluppi della situazione di instabilità alla quale ormai siamo abituati da tempo. E vengono in mente le famose parole di Gaber, «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono» pronunciate in una canzone che torna ad essere attuale come non mai perché «questo Bel Paese forse è poco saggio, ha le idee confuse, ma se fossi nato in altri luoghi poteva andarmi peggio».

Foto di copertina © Screenshot – Süddeutsche Zeitung

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