Perché ci sono così tanti turchi a Berlino? Ecco la loro storia

Le pasticcerie traboccanti di lokum e baklava, il risuonare assordante dei clacson nei festosi cortei nuziali a Hermannplatz, l’aroma dolciastro che sulle ottomane degli Shisha-bar si mescola a risate oghuz, gioviali, e l’intramontabile presenza ormai quasi istituzionale del Döner Kebap – chiunque abbia passato un po’ di tempo nella moderna Berlino non avrà potuto fare a meno di notare una presenza apodittica dell’influenza turca intessuta nella ricca trama culturale che caratterizza la città. Di fatto, più del 5% della popolazione berlinese è costituito da cittadini di discendenza turca; una porzione umana considerevole, dopotutto, che ha svolto un ruolo non trascurabile nel plasmare l’assetto attuale della capitale tedesca. Eppure – ammirando i gol di Mesut Özil durante le partite dei mondiali, sorseggiando il nostro caffè mattutino in uno Spätkauf o ringraziando lo stakanovismo dei ristoratori turchi a tarda notte – tendiamo troppo spesso a sottovalutare l’importanza che questo particolare gruppo di espatriati ha giocato nel contesto più ampio della storia di Berlino, riducendola piuttosto banalmente a un aneddoto culinario o di sottocultura popolare.
Perché così tanti turchi hanno scelto Berlino come terra promessa e delle grandi opportunità? In che misura hanno influenzato lo sviluppo della città? E come hanno conciliato le differenze tra Wurst und Bier tedeschi e l’attaccamento a un preziosissimo retaggio culturale?

LA PRUSSIA E L’IMPERO OTTOMANO: NON SOLO TURBANTI E CAFFÈ

Il rapporto di Berlino con la comunità turca ha un passato più antico di quanto molti possano immaginare. Nel lontano 1761 – molto, molto prima che la Turchia e la Germania esistessero come nazioni intese in senso moderno – il Kaiser Federico Guglielmo I di Prussia firma un concordato con l’impero ottomano di Mustafa III, che al tempo occupa gran parte dell’Europa Orientale e alcuni territori del Nordafrica e del Medio Oriente. Pur essendo stipulata originariamente come un’alleanza militare tesa a contrastare l’eterno nemico comune, vale a dire l’Austria, la collaborazione non si spingerà mai fino a quel punto. Il risultato di quest’intesa, però, rappresenta il primo esempio storico dell’influenza turca in Germania: a Berlino viene istituita un’ambasciata ottomana permanente e lo ‘stile turco’ prende piede sempre più fra la popolazione. I prussiani cominciano ad imitare i nuovi alleati anche nelle loro occupazioni quotidiane e, per un certo periodo, il turbante diventa un vezzo modaiolo appannaggio dell’alta società berlinese – a riprova del fatto che i copricapo eccentrici non sono affatto una prerogativa dei moderni hipster.

Il caffè, una bevanda scoperta relativamente di recente, diventa importabile con più facilità e fruibile anche dalla classe operaia, che comincia a farne un uso talmente entusiasta da costringere il Kaiser Federico II, nel 1781, ad emanare un divieto proibizionista per ridurne i costi di importazione. La misura, però, non fa altro che accrescere la sua popolarità: i grani miracolosi finiscono per essere contrabbandati in quantità esponenziali o sostituiti dall’affascinante Muckefuck, un surrogato a base di cicoria che prende il suo curioso nomignolo da un’approssimazione tutta Berlinerisch del termine francese “mocca faux” (falso caffè).
La cosiddetta Türkenmode prosegue per svariati decenni, raggiungendo il suo apice quando Federico Guglielmo III decide di rendere omaggio all’ambasciatore ottomano di Berlino dandogli sepoltura al Tempelhofer Feld, all’epoca prestigiosa piazza d’armi e sfondo ufficiale di parate militari. Il sontuoso funerale è in assoluto la prima cerimonia islamica che si sia mai tenuta in città, e l’attrazione del popolo prussiano per la cultura esotica si intensifica di conseguenza. Il terreno di sepoltura viene donato all’impero ottomano, lo stesso che è ora sede dell’imponente Moschea Şehitlik (in foto) e del cimitero islamico più antico di tutta la Germania.

DOPOGUERRA, DIVISIONI E POLITICHE DI ACCOGLIENZA

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, dall’iniziale entourage degli ambasciatori e delle loro famiglie si è ormai creata una piccola comunità turca in città, sebbene le occasioni per socializzare con i berlinesi restino piuttosto rare e limitate alle situazioni ufficiali. Negli anni successivi viene inviato a Berlino anche un contingente militare ottomano e, quando nel 1923 viene fondata la Repubblica di Turchia, la Germania diventa ben presto il suo più importante partner commerciale. A causa del clima di instabilità del dopoguerra, tuttavia, non si assiste ancora a un consistente incremento dell’immigrazione.

Bisognerà attendere che si posi la polvere della Seconda Guerra Mondiale e che i nuovi confini vengano tracciati fra le macerie perché la popolazione turca di Berlino sperimenti un vero e proprio boom demografico. Nell’Ottobre del 1961, undici settimane dopo l’edificazione del Muro e il conseguente isolamento di Berlino Ovest dalla DDR, la Turchia firma un accordo con la Repubblica Federale Tedesca per permettere ai cittadini turchi di trasferirvisi e incrementare la sua forza lavoro. Appena concluso il negoziato, l’afflusso di manodopera turca è massiccio e immediato. In virtù del patto iniziale, il periodo di tempo concesso a qualunque Gastarbeiter straniero è limitato a tre anni, per consentire al paese ospitante di non sacrificare tutta la manovalanza locale. All’atto pratico, però, le aziende si oppongono all’idea di dover reclutare (e formare) nuovi lavoratori ogni paio d’anni; così, alla fine degli anni Sessanta, lo Stato abolisce la restrizione e molti operai turchi vengono raggiunti in Germania dalle loro famiglie. In termini economici, chiaramente, la decisione riduce l’efficienza del sistema dei Gastarbeiter, perché lo Stato tedesco si ritrova a dover collocare e sostentare intere famiglie, garantire l’educazione dei loro figli e provvedere a una fetta di popolazione culturalmente differente che cerca di farsi strada con coraggio in un nuovo mondo.

LE TENSIONI RAZZIALI E LA STRATEGIA DI ‘SFOLTIMENTO’ DI HELMUT KOHL

Con il passare degli anni, l’integrazione diventa un problema. Nel 1973, in un tentativo di placare il crescente sentimento di xenofobia, il Cancelliere Helmut Schmidt decide di bloccare le domande di immigrazione legate all’ingresso dei Gastarbeiter, ma invece di ridurre il numero degli immigrati ottiene l’effetto contrario: gli operai turchi già insediati, diventati ormai indispensabili, non possono più essere rimpiazzati e optano per una permanenza in Germania a lungo termine, insieme alle loro famiglie. In questo periodo il radicamento turco è ancora una volta in crescita, specie a Berlino Ovest, zona calda in materia di immigrazione per i suoi estensivi programmi di ricostruzione. Si sviluppano così, specie in quartieri come Kreuzberg e Wedding, nuove comunità di immigrati che seppur trapiantati non rinunciano ad abitudini, tradizioni e stile di vita del paese d’origine. La leggenda vuole, infatti, che risalga proprio all’inizio degli anni Settanta l’inaugurazione della prima tavola calda Döner su Kottbusser Damm, poco distante dal popolarissimo mercato turco di Maybachufer che ancora oggi anima le rive del canale ogni martedì e venerdì.

Nonostante un discreto livello di tolleranza, le tensioni legate alla presenza turca in Germania permangono, esacerbate nel 1980 dal colpo di stato militare in Turchia che innesca una nuova ondata migratoria, stavolta caratterizzata dalle richieste di asilo politico. Due anni dopo, durante un incontro segreto, il Cancelliere Helmut Kohl sottolineerà l’impossibilità di integrare cifre tanto massicce nella società tedesca che, secondo una statistica di quegli anni, è favorevole per un buon 58% alla riduzione dell’immigrazione turca in seno alla Repubblica Federale. Per fronteggiare la situazione, allora, viene introdotta una nuova strategia: questa volta il governo decide di offrire 10.500 marchi tedeschi e la garanzia di una copertura pensionistica a tutti gli immigrati che acconsentano a ritornare in Turchia. L’obiettivo sotteso di Kohl è di ridurre la popolazione turca del 50%, ma il piano si rivela un insuccesso clamoroso. Solo 10.000 immigrati accetteranno l’offerta, una frazione infinitesimale della popolazione turca ormai stanziata in Germania e assolutamente non intenzionata a subire un nuovo sradicamento. La strategia, vista come un incentivo agli atteggiamenti anti-turchi, non fa che acuire le tensioni razziali e chiarire un fatto incontrovertibile, al di là di tutto: la comunità turca in Germania non ha alcuna intenzione di smobilitare.

I problemi cominciano gradualmente ad affievolirsi quando si instaura un clima di coesistenza pluriculturale fra i giovani tedeschi e gli immigrati di seconda generazione, loro coetanei, conosciutisi fra i banchi di scuola e ora colleghi in fabbriche e uffici. Eppure, sporadicamente, le recrudescenze intolleranti tornano a farsi sentire: i primi anni Novanta sono caratterizzati da numerosi incendi dolosi nella provincia tedesca ai danni di immigrati e il nuovo millennio si apre con una serie di omicidi perpetrati a commercianti di nazionalità turca, tutti rivendicati da movimenti di stampo neo-nazi. Il governo e la popolazione tedesca, tuttavia, prendono nettamente le distanze, relegando (e condannando) le aggressioni a una deprecabile deriva estremista.

LA BERLINO MULTIKULTI ODIERNA

In che misura è integrata oggi la popolazione turca a Berlino e nel resto della Germania? I segnali sono certamente positivi: nel 2013, il baccano seguito alla pubblicazione dei verbali inediti e top secret della strategia di Helmut Kohl del 1982 dimostra quanto l’atteggiamento dei tedeschi sia cambiato. E in meglio.
La popolarità di personaggi pubblici dalla doppia appartenenza culturale quali l’attore Bülent Ceylan, il regista Fatih Akin e Mesut Özil – la superstar della nazionale tedesca trionfatrice ai mondiali di calcio del 2014, di cui abbiamo parlato anche qui – ha aiutato certamente a mitigare i confini. E progetti come la fondazione della società calcistica Türkiyemspor Berlin, nata nel 1978, o l’istituzione del DilDile, il suggestivo festival della letteratura turca giunto ormai alla terza edizione, dimostrano quali risultati è possibile raggiungere con efficaci politiche di integrazione a livello comunitario. Eppure l’integrazione della comunità turca a Berlino resta una questione ancora ampiamente e aspramente discussa. Heinz Buschkowsky, controverso e popolare sindaco di Neukölln, ha sollevato un polverone con la pubblicazione del suo libro Neukölln ist Überall, con il quale nel 2012 si è attirato le critiche feroci del mondo politico per il suo discutibile resoconto dei problemi interculturali del quartiere. Franz Schulz, sindaco del distretto Friedrichshain-Kreuzberg fino al 2013, lo ha definito “allarmista” e si è spinto ad accusare Buschowsky di tendenze razziste per aver accentuato esageratamente la gravità di questioni quali “l’importazione di spose” e la “gioventù degenerata”.

Forse il fattore scatenante è rappresentato dal fatto che la cultura turca resti aliena e inavvicinabile agli occhi di quanti conservano un retaggio tedesco più tradizionalista. Per motivi culturali e religiosi, difatti, molti cittadini di discendenza turca non bevono alcolici e non mangiano carne di maiale, quindi è improbabile che da un momento all’altro decidano di prendere parte ai bagordi sfrenati di ritrovi come l’Oktoberfest, tanto cari al tedesco medio. Ciò nonostante, nella moderna Berlino – capitale vegan-friendly e multikulti del Club Mate – differenze di questo genere sono tutt’altro che insormontabili. È qui che è cominciata l’immigrazione turca, 250 anni fa, ed è la sua attuale diversificazione a renderla più di altre la città perfetta nel cammino pioneristico verso l’armonia culturale. Un sentiero che trova la sua piena realizzazione solo alla luce di ciò che è stato, l’unica lente valida per intravedere con più lungimiranza e buonsenso ciò che sarà.

Foto © Sascha Kohlmann CC BY-SA 2.0
Foto © Alexander’s Photographs CC BY-SA 2.0
Foto © Philby CC BY-SA 2.0

 

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