Germania, l’esempio della Zeit. Per parlare di migranti esce con un’edizione bilingue tedesco/arabo

“Ogni giorno molti uomini si mettono in viaggio nella speranza di una vita migliore. A loro dedichiamo questo numero. Molti rifugiati, in particolar modo, arrivano in Germania da paesi arabi. Perciò questa edizione di Zeit Magazin esce in tedesco e in arabo”. Si apre così l’inserto della Zeit n°22. La stampa tedesca, soprattutto dopo la tragedia nel Canale di Sicilia del 18 aprile scorso, si occupa continuamente di migranti. Ma un’edizione bilingue, totalmente dedicata al tema, ricca di interviste agli Asylbewerber (richiedenti asilo) e di foto che loro stessi hanno scattato, è un’operazione culturale che non lascia indifferenti. Rifugiati siriani, iracheni, afghani raccontano le loro storie: la fuga dalla guerra civile e dalla miseria, l’impatto con la realtà tedesca, lo studio della lingua, la ricerca di una casa e di un lavoro. Tra Heimweh (nostalgia di casa) e il sogno di un futuro migliore. Che molto spesso consiste semplicemente nel ritrovare la splendida normalità del quotidiano.

E l’Italia? Sarebbe pensabile da noi un’iniziativa del genere? La situazione, di primo acchito, appare molto diversa: le argomentazioni xenofobe di Matteo Salvini trovano sempre più spazio nei talk show e consenso nella società, Daniela Santanchè suggerisce di affondare i barconiBeppe Grillo si lascia andare a tweet piuttosto discutibili mentre un sondaggio rivela che siamo i più razzisti d’Europa. Ovviamente la situazione è di certo più sfaccettata, ma è un dato di fatto che, complici la crisi, la paura e la disinformazione, da noi si stia radicando un clima plumbeo. Legittimati dalle parole sconsiderate di una parte della classe politica, sempre più italiani si abbandonano al pregiudizio e ai luoghi comuni, avvertono l’alterità solo come minaccia e non come opportunità, sviluppano – anche inconsciamente – argomentazioni violente e una retorica razzista, a volte sbandierata con fierezza, senza remore. E la violenza verbale – la storia e la cronaca insegnano – tracima facilmente in quella materiale.

Le nostre istituzioni fanno spesso fatica ad ascoltare questi campanelli d’allarme. La classe dirigente tedesca – governo, media, associazioni religiose – ha invece preso molto seriamente il problema (il cui emblema è il successo delle manifestazioni del movimento Pegida nello scorso inverno). Qui, anche sulla scorta di un tragico passato, si è compreso bene che – come diceva una volta Nanni Moretti – le parole sono importanti, che un ampio dibattito pubblico e un serio lavorio culturale sono il miglior antidoto alla polarizzazione della società in opposti estremismi. Che, se si vuole isolare Pegida, i gruppi xenofobi, così come l’estremismo islamico, bisogna operare sui loro “bacini di utenza” potenziali, dal piccolo-borghese di Dresda impoverito e spaventato fino ai giovani musulmani privi di istruzione e prospettive. Uno Stato laico e democratico sa come far avvertire a queste fasce sociali a rischio la sua forza inclusiva e la sua presenza rassicurante. Ovviamente non trascura il lavoro di intelligence e di polizia: dopo Charlie Hebdo non sarebbe possibile. Ma, prima di tutto, apre le braccia ai suoi cittadini e ai suoi ospiti, indipendentemente dall’origine e dalla religione, offrendo loro un’alternativa al vicolo cieco dell’odio.

Certo, i fatti di Ventimiglia testimoniano ulteriormente, se mai ce ne fosse bisogno, del naufragio morale, prima ancora che politico, dell’Europa di fronte ai flussi migratori. Da questo punto di vista è probabilmente impossibile, oltreché inutile, stilare una classifica dei paesi virtuosi e dei paesi egoisti: l’Unione Europea ha costantemente dimostrato una sorda disumanità nell’affrontare il problema e le autorità hanno di fatto adottato una politica di intimidazione, volta a scoraggiare a monte le partenze.

In questi ultimi giorni, poi, è ripartito il gioco allo scaricabarile sulle quote dei richiedenti asilo. Ogni paese sostiene di aver già fatto la sua parte ed esige ulteriori sforzi dagli altri membri dell’Unione. L’Italia, dal canto suo, lamenta le conseguenze della Convenzione di Dublino (in base alla quale i rifugiati devono fare richiesta d’asilo nello Stato in cui arrivano), che effettivamente grava i paesi mediterranei di un surplus di responsabilità.

Il ministro degli interni tedesco Thomas de Maizière, d’altra parte, ha ribadito in modo inflessibile la posizione del suo governo: l’Europa deve essere solidale, e la Germania finora è stata un modello, accogliendo da sola un terzo dei richiedenti asilo in Europa, tra cui 105.000 rifugiati siriani dall’inizio della guerra civile. Pochi giorni fa il Bund tedesco ha peraltro raddoppiato il finanziamento statale per i Flüchtlinge ai Länder e ai comuni, innalzandolo a un miliardo di euro. Ma i flussi non accennano a diminuire e tale circostanza – insiste de Maizière – richiede un piano europeo più strutturato, una solidarietà condivisa e una ferma distinzione tra rifugiati politici e migranti economici: “non accetteremo”, taglia corto il ministro, “un’emigrazione di povertà e un utilizzo del diritto d’asilo per scopi sociali”.

Ecco, sotto questo aspetto la Germania non si differenzia – e nemmeno potrebbe farlo – dal resto d’Europa. Anche qui viene adottato uno distinguo piuttosto specioso tra coloro che fuggono da guerre e persecuzioni (ed hanno dunque diritto all’asilo, in base alla Convenzione di Ginevra del 1951) e coloro che fuggono dalla miseria. Respingendo e, di fatto, criminalizzando i secondi. Come se fuggire fame e condizioni di vita insopportabili si potesse considerare, di per sé, un reato o una colpa.

D’altro canto, come biasimare il governo tedesco? La “locomotiva d’Europa” suscita speranze nell’immaginario di migliaia di europei e non europei che, a torto o a ragione, sognano un avvenire migliore in uno Stato dall’economia in salute e dal welfare solido.
Ma la Germania non è più il Bengodi. L’assistenza sociale a pioggia è un ricordo del passato e le stesse statistiche sembrano corroborare la tesi di chi pensa che si sia già fatto tanto, e che ora tocchi un po’ anche agli altri: nel 2014 la Germania è stato il paese che ha concesso più volte asilo, con 41.000 richieste approvate, seguita dalla Svezia e dall’Italia. È inoltre lo Stato Ue col maggior numero di stranieri residenti: 8,2 milioni a fine 2014, in prima fila turchi e – udite udite – italiani, nuovamente popolo di emigranti. L’Italia ha invece circa 5 milioni di residenti di cittadinanza straniera, l’8,2% della popolazione, di cui 300.000 irregolari (perlopiù overstayers, persone a cui non è stato rinnovato il permesso di soggiorno).

De Maizière stesso, in Germania, riconosce l’indispensabilità demografica ed economica di questa consistente fetta di popolazione. Ma sottolinea anche che il governo, proprio per prendersi cura al meglio dei suoi “cittadini” vecchi e nuovi, per favorire i processi di integrazione ed evitare tensioni sociali, non può consentirsi di incrementare ulteriormente tali percentuali. Parole nette e una linea politica ben definita, che può piacere o meno, ma che sicuramente non lascia spazio a equivoci e confusioni.

E la politica di casa nostra, invece? Sarebbe interessante sapere in cosa consista precisamente il piano B di cui ha parlato Renzi, nel caso in cui l’Europa non dovesse mostrarsi all’altezza della situazione. Oppure perché i Centri di accoglienza e i Centri di identificazione e espulsione sembrino spesso carceri e costituiscano delle autentiche bombe a orologeria. E come mai Roberto Maroni, governatore di una regione come la Lombardia, possa minacciare tranquillamente di togliere i finanziamenti regionali ai comuni che accolgono i migranti, seguito a ruota da Zaia in Veneto e Toti in Liguria.

Probabilmente, a un osservatore esterno, tutto questo potrebbe apparire il frutto della nostra atavica tendenza all’improvvisazione. Quella che ci induce a perpetuare lo stato di emergenza, fino a farne la normalità. Forse, a tale osservatore imparziale, potrebbe risultare difficile anche comprendere perché ormai si adoperi l’odioso termine “clandestino” per ogni essere umano che metta piede sul suolo italiano. Veicolando l’idea, a dir poco feudale, che il destino di un uomo e le stesse fattispecie di reato dipendano dallo status, dalla nascita, dalla provenienza, e non dalle azioni che si compiono.

L’osservatore si chiederebbe stupito, infine, perché milioni di persone seguano uno come Matteo Salvini, che soffia sulla fiamma dell’odio: immigrati che porterebbero la scabbia, l’ebola e la tubercolosi; che se la spasserebbero con tv satellitare, palme in giardino e telefonini di ultima generazione pagati dai contribuenti; milioni di islamici che premerebbero alle frontiere, pronti a sgozzarci tutti.

Rispetto a un tale scenario, i limiti del governo tedesco sulla questione migranti sembrano passare in secondo piano. Perché de Maizière, di fronte all’avanzata di Pegida nella sua Sassonia, è sceso in strada preoccupato a dialogare con i cittadini. Perché, per ogni manifestazione gegen die Islamisierung des Abendlandes (contro l’islamizzazione dell’Occidente), la parte sana della società civile organizza una Gegendemonstration, ricordando che Berlino è bunt, multicolore, e che la Germania è “too smart for Pegida”. Perché Angela Merkel, qualunque opinione ne si abbia, all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo non ha esitato a dichiarare qualcosa di impensabile, per un Presidente del Consiglio italiano: “l’Islam appartiene alla Germania”. “Io sono la cancelliera di tutti i tedeschi e di tutti coloro che vivono qui stabilmente, indipendentemente dalla loro origine e provenienza”.

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