«Il mio avventuroso viaggio senza soldi tra Danimarca e Germania»

Stavo tornando da un viaggio a Copenaghen. Ero andato a trovare un’amico che studiava lì. La vacanza era giunta al termine e in mattinata dovevo prendere un treno per Francoforte, dove la sera stessa mi aspettava il volo per tornare in Italia.

Il tutto sembra piuttosto lineare e semplice, se non fosse per il fatto che in tasca mi erano rimaste poco più di trenta euro e il biglietto costava molto di più. Avevo con me una carta bancomat, ma prosciugata. E mio padre mi aveva categoricamente proibito di andare a rosso nel conto.

Digitai quindi “viaggio della speranza” sull’interfaccia dell’avanzatissimo software di problem solving integrato all’interno del mio cervello. Subito una finestra pop-up mi rammentò che nuovi aggiornamenti erano disponibili. La chiusi e spuntai, tra le varie opzioni disponibili nel display, i parametri di “urgenza” e di “gravità”. Attivai il filtro “low cost”. Optai per un “ricerca soluzione disperata” anziché “prudente” e premetti il pulsante invio.

Il risultato fu praticamente lo stesso che il programma solitamente mi suggeriva per ogni altra situazione problematica affrontata in precedenza, ovvero: “avvio procedura d’emergenza alla cazzo di cane”. Il che significava salire su quel treno ad ogni costo e sperare nella buona sorte. Non era facile. C’erano controllori a terra, che all’imbarco di ogni vagone convalidavano il biglietto e si assicuravano che tutto fosse in regola. Decisi, sempre sotto suggerimento del mio super affidabile software, di tentare una strategia attendista, con la speranza che uno di loro prima o poi smuovesse il culo.

Se Murphy fosse stato semplicemente un povero sfigato pessimista al quale non gliene andava mai una buona, la sua teoria non avrebbe avuto poi così tanto successo. Pertanto accettai ottimisticamente il suo matematico pessimismo e attesi che qualcosa in generale, a qualcuno in generale, andasse storto.

Copenhagen Denmark Cityscape Architecture Buildings

Copenhagen Denmark Cityscape Architecture Buildings © Max Pixel CC 0

Non a me. Ovvio.

Murphy ci azzeccò anche quella volta. Vecchio lupo. Uno dei passeggeri sembrò aver problemi di non so che genere. Il controllore tenne il suo biglietto e gli fece segno di aspettare, per poi dirigersi verso uno degli uffici.

Era la mia occasione.

Scivolai dentro il vagone e mi rinchiusi in bagno. Dovevo solo aspettare la partenza, e poi tutto sarebbe andato liscio come l’olio. C’era solo una fermata prima della frontiera con la Germania e il mio obiettivo primario era oltrepassarla. “Una volta giunto in territorio tedesco” pensai, “sarà tutto in discesa”. In verità, non saprei neanche dire il perché.

Nel cesso, il software avanzatissimo mi indicava una “percentuale di successo” del 58,6%. Ma, secondo il grafico, stimava un picco dell’88,1% all’avvio delle macchine motore, per poi  scendere durante il viaggio e assestarsi intorno all’87%. Penso a causa della possibilità di un incidente ferroviario che il mio super avanzatissimo software di problem solving non trascurò di calcolare. Il tutto contro un misero 15,3% stimato quando ero ancora a terra. Prima che Murphy ci mettesse lo zampino.

In pratica, ero già a Francoforte. Ero già su quell’aereo.

Circa tre quarti d’ora dopo la partenza del treno mi ritrovai in un paesino sperduto a ridosso della frontiera tedesca. Solo. Sotto la pioggia. Tutt’intorno silenzio, desolazione e umidità.

Non appena avevo cacciato il muso fuori dal cesso il controllore mi stava aspettando come un ragno attende paziente che la preda si incagli nella sua rete. Le provai tutte, ma non ci fu modo di convincerlo a farmi rimanere su quel treno. Gli feci capire che ero anche disposto a beccarmi una multa salata pur di non scendere. Ma era sua ferma intenzione svagonarmi alla fermata successiva. Lo si leggeva nel sogghigno soddisfatto dei suoi “no!”, quando gli ripetevo disperatamente di non poter perdere assolutamente quella coincidenza.

E così scesi.

Il software se ne stava in silenzio in un angolino della mia neocorteccia a fare finta di mandare un messaggio col telefonino.

  • “Sei licenziato!”. Gli dissi.
  • “Te l’avevo detto di aggiornare il programma!!”- Rispose. Poi provò ancora a difendersi. -“Gli algoritmi erano obsoleti e i parametri erano ancora tarati secondo il sistema italiano…”- . “…e inoltre …tanto per la cronaca: non si può licenziare un software base del sistema operativo. Perlopiù integrato nella scheda madre!!”
  • “Ma va a cagare!!”.  Lo spensi.

Non passò un treno per una buona mezzora. Tentai di informarmi in stazione, ma una anziana donna dietro lo sportello della biglietteria mi fece garbatamente capire che non parlava inglese. Parlava tedesco, volendo, ma io no. Quindi mi rassegnai a malincuore a reiterare la tecnica attendista che il mio software avanzatissimo mi aveva precedentemente suggerito. D’altronde, era l’unica che avesse funzionato sino ad allora.

Dopo una lunga attesa sotto la pioggia e al freddo arrivò il treno.

Stavolta decisi di affrontare di petto il destino e adottare una strategia d’impatto. Così andai a cercare il controllore per spiegare la mia condizione di clandestinità e cercare di garantirmi un proseguimento più sereno del viaggio.

La cosa funzionò. Il controllore fece solo una breve smorfia di disapprovazione, che bene o male avrei tradotto come un “’Sti giovani fricchettoni squattrinati di oggi!” e poi proseguì disinteressato nello svolgimento dei suoi compiti. Probabilmente non aveva capito una virgola di ciò che gli avevo riferito. Ma penso che la mia infallibile espressione da cucciolo di cane abbandonato avesse fatto il resto.

Stavolta era fatta veramente. Potevo prendere posto su una delle comode poltrone in seconda classe e lasciare che il treno spostasse il mio culo infreddolito verso la meta stabilita senza ulteriori preoccupazioni.

Riaccesi per un attimo il software, gli feci un dito medio e poi lo spensi di nuovo.

Mi sedetti tra uno di quei posti con tavolino in mezzo. Vicino al finestrino, dove potevo ammirare le sperdute lande desolate delle terre di frontiera scorrere rapidamente oltre il vetro. Non avevo molto da fare, così mi misi a leggere. Castaneda, a quei tempi divoravo i suoi libri come noccioline.

Non molto tempo dopo una ragazza si sedette di fronte a me. Portava dei capelli color rosso mogano. Un viso giovane e fresco. Morbide labbra, pelle candida e due occhi di ghiaccio. Anche lei si mise a leggere.

Di tanto in tanto le lanciavo qualche occhiata. Era veramente bella. Lei ogni tanto ricambiava compiacente ma vagamente imbarazzata.

Non riuscii a concentrarmi più di tanto sul libro. Mi misi a fantasticare sulla sua vita. Da dove venisse, dove andasse, chi la stesse aspettando a destinazione, che numero di scarpe portasse, la taglia del reggiseno, etc. Non molto tempo dopo stavamo conversando. Si chiamava (e credo si chiami tuttora) Gabomilla, veniva da Stoccolma, era svedese e stava andando ad Amburgo per visitare degli amici. Fu in quel momento che mi resi conto che il treno che avevo preso non andava diretto a Francoforte. Pazienza. Ormai mi restavano poche speranze di arrivare in tempo per il volo e la conoscenza di Gabomilla era un ottima consolazione.

Dopo un po’ lei mi fece notare che leggevamo lo stesso autore. I libri però erano diversi. Parlammo un po’ dell’autore e di quanti dei suoi libri avessimo letto. Lo trovammo divertente e “profetico” e così stringemmo amicizia. Ci scambiammo le mail e i numeri di telefono prima di scendere ad Amburgo, dove mi disse che un suo amico la stava aspettando. Ci salutammo con la promessa di rivederci un giorno. E così fu.

Di Amburgo ricordo poco: la stazione, il vento forte e la pioggia.

Avevo un’ora di tempo prima del prossimo treno per Francoforte e volevo tentare comunque. Non avevo nulla da perdere.

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Francoforte sul Reno © Nickwood – Pixabay CC 0

Improvvisai un giretto nei pressi della stazione. Volevo solo trovare un posto tranquillo dove fumare una canna. Avevo con me ancora un po’ d’erba che avevamo acquistato a Christiania tra le bancarelle.

Iniziò a piovere. La città aveva un aspetto grigio, meccanico, e la gente sembrava tutta piuttosto indaffarata. Anche i fattoni che bazzicavano nei pressi della stazione sembravano particolarmente indaffarati.

Trovai il posto giusto: una micro-piazzetta con un grande albero nel mezzo, senza panchine, ma con un basso muretto dove potermi appoggiare comodamente al riparo dalla pioggia, che andava e veniva indecisa in balia del vento.

Lí mi abbandonai a complesse e intricate speculazioni filosofiche nel tentativo di trarre qualcosa di utile da quella breve sosta ad Amburgo. Continuavo a guardarmi intorno per cercare qualcosa di interessante da analizzare e comprendere. Tanto per masturbarmi il cervello e ammazzare la noia. Ma nel traffico metropolitano, nelle impalcature delle costruzioni o nella gente indaffarata trovavo pochi stimoli interessanti. Ogni cosa scorreva con rapidità e freddezza. Ogni cosa appariva di sfuggita nello schermo della mia mente per poi scomparire un istante dopo. Un flusso continuo, costante, di veicoli, persone, strutture ed edifici senza una direzione definita e apparente.

Indirizzai lo sguardo verso l’albero. Era lì. Alto, fiero e immobile. E anche lui se ne stava tranquillo e silenzioso ad osservare il tutto scorrere intorno a lui. Ne osservai il tronco spesso e ruvido. I rami alti e robusti sostenevano intricate ramificazioni che offrivano un sicuro alloggio ad un numero indefinito di foglie. E fu proprio quando mi soffermai sulle foglie che iniziai a torturarmi con complesse elucubrazioni mentali.

Mi chiesi se anche le foglie si sentivano in un qualche modo speciali. Se ogni singola foglia pensava di essere unica e insostituibile. Se qualcuna di loro si sentiva più importante delle altre, tanto da meritare un posto più in alto e più vicino al sole. Se qualcuna di loro provasse anche invidia o ammirazione per quelle più fortunate. Mi domandai se avessero un loro sistema di comunicazione complesso in modo da creare una rete diffusa attraverso il quale diffondere l’informazione e permettere così alle foglie dominanti di decidere cosa far pensare alle foglie più sfigate. Tanto per tenerle a bada.

“Forse,” pensai, “…le foglie non sanno neanche della loro utilità”. Forse pensano solo di essere parte del ramo da cui protendono e si accontentano di questo. In quel momento stesso un paio di loro si staccarono dal ramo trascinate via dal vento. Mi resi conto quindi che quelle più esterne, sebbene più esposte alla luce solare, erano altrettanto esposte alle intemperie. Quella che in apparenza mi era sembrata una “vita da star” si rivelava invece una esistenza incerta e difficile segnata da un destino crudele e beffardo. Le più fortunate, le più invidiate e ammirate dalle altre foglie, erano invece destinate a cadere per prime con l’arrivo dell’autunno e del maltempo. Per ironia della sorte, le più nascoste, inutili e meno considerate, avrebbero gioito più a lungo della loro esistenza, forse, senza neanche rendersene conto.

Mi sentii soddisfatto di queste mie acute e brillanti osservazioni. Trarre conclusioni è un passatempo che trovo particolarmente piacevole e stimolante, e quel giorno giunsi ad una conclusione che ritenni piuttosto importante: non avrei sicuramente mai potuto fare il giardiniere.

Tornai a guardarmi intorno. Stavolta però la prospettiva era diversa. Direi globale. O meglio, universale.

Non solo mi sentivo come in quelle scene a rallentatore particolarmente in voga nel cinema supereffettato moderno, in cui tutto scorre lentamente intorno al protagonista come per rimarcare l’unicità e la sincronia del movimento “cosmico” in contrasto con l’apparente calma e immobilità interiore. Ma non sentivo più neanche quel senso di estraneità che si avverte quando si passeggia in giro per una città sconosciuta. Io ero là, come avrei potuto essere nel deserto del Gobi, senza avvertire la minima differenza. Qualcuno potrebbe pensare per effetto della marijuana, ma io penso che sarebbe offensivo nei confronti di tutti quegli onesti consumatori che la fumano con la viva e sincera speranza di riuscire a disattivarlo il cervello, invece di grattugiarlo con riflessioni di dubbia consistenza.

Ad ogni modo pensai al “Panta rei” di Eraclito. All’immagine di lui, seduto in tunica bianca lungo il fiume, con la sua sacca piena di rotoli di sagge scritture, del pane secco, olive e del formaggio di capra.

Lui è lì che osserva l’acqua scorrere. Una libellula gli ronza allegramente intorno per poi posarsi delicatamente sul suo ginocchio. Gli fa festa. In segno di pace e armonia con la natura. Lui la osserva immobile e pacato. Il suo sguardo è sereno e accondiscendente. Poi si fa scivolare lentamente la mano destra verso il piede, con calma e saggezza, per non spaventare la piccola libellula. Dopodiché fa finta per un attimo di grattarsi l’alluce e si toglie furtivamente l’infradito. Solleva il braccio in aria. Calcola la traiettoria. E infine sferra un colpo netto e calibrato.

La patacca di sangue di libellula spiaccicata sulla tunica nuova di marca lo fa infuriare, pertanto si avvicina al letto del fiume per lavarla. Nell’avvicinarsi però, calpesta col piede ancora scalzo una piccola pianta di ortica, perde l´equilibrio e cade in acqua. Fortunatamente, lungo la riva, il livello dell’acqua è ancora basso, perciò poco dopo la sua testa spunta lentamente dalla superficie come quella di un coccodrillo che riemerge a galla. Con la mano si sposta i capelli bagnati dagli occhi e, a quel punto, la grande illuminazione lo travolge.  La “rivelazione divina” gli si manifesta davanti in tutta la sua sconvolgente semplicità. “Tutto scorre” pensa rassegnato Eraclito, mentre osserva la corrente trascinare via il suo sandalo, il pane, le olive e il formaggio. I rotoli di sagge scritture però erano ancora intatti nella sacca. Se la toglie. Ci guarda dentro per vedere se vi é rimasto ancora qualcosa. Poi getta via anche quella e se ne torna verso il tempio zoppicante, semiscalzo e bagnato fradicio.

Nell’ultima scena lo immaginai inveire in greco antico contro dei passanti che si erano avvicinati per soccorrerlo. “Panta rei!!!” Continuava a urlare Eraclito imbestialito e facendo segno verso il fiume. Ma i passanti non capivano. Erano un gruppetto di Ateniesi venuti in gita scolastica a Efeso e le parole del filosofo risultavano loro troppo profonde e incomprensibili. Anche se perlopiù erano bestemmie in dialetto locale.

Il resto poi é storia e mitologia.

Anche da questo breve trip mentale trassi una brillante conclusione. Ovvero che, tutto sommato, i filosofi erano un po’ come me: non avevano proprio un cazzo di meglio da fare.

Al che mi intrippai a pensare in merito al significato e al valore stesso di una conclusione. Parola che in sé comporta un giungere al termine, ovvero che, appunto, “chiude” qualcosa, che sia un dibattito, un discorso o anche una semplice riflessione personale. Pertanto la conclusione in sé non ha uno valore euristico. Non lascia spazio a sviluppi ulteriori, né tantomeno a eventuali commenti e giudizi altrui. È qualcosa che resta là, che lascia il tempo che trova. Nessuno la può controbattere e nessuno la può smentire. È una cosa che sostanzialmente non ha alcuna utilità, se non per chi la enuncia.

Mi resi conto che mi stavo perdendo troppo in fregnacce da abuso di pianta psicotropa. Era veramente giunto il momento di concludere prima di riavviarmi verso la stazione. Tirando le somme, quindi, mi rituffai nel mondo reale arricchito di tre nuove “brillanti conclusioni”:

Il giardinaggio non era cosa per me.

I filosofi erano dei gran perditempo.

E le conclusioni non servono a un cazzo.

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 Photo: © Max Pixel – CC0