«Io, della famiglia Francia, vi spiego come produciamo mozzarelle italiane a Berlino dal 1990»

Marika Francia ha 31 anni, vive in Germania da quando ne aveva 23 ed è innamorata di Berlino. Lavora come Sales and Executive Manager per la Francia Latticini, storico caseificio inaugurato a Pontinia da Enrico e Olivia Francia (di cui Marika è la nipote) e poi cresciuto nei decenni sotto un’accorta gestione familiare al punto da diventare uno dei principali marchi caseari italiani e da espandersi anche in Germania. Nel 1990, infatti, Alceo Francia fonda con un collaboratore l‘azienda Francia Mozzarella GmbH a Berlino Reinickendorf, che a partire dal 1994 diviene di proprietà esclusiva della famiglia Francia. Oggi la filiale berlinese, che dal 2001 si è trasferita nel più moderno stabilimento di Volkmarstraße, in zona Tempelhof, conta oltre 60 dipendenti e rifornisce di prodotti caseari una grossa fetta del mercato tedesco, ma non solo: le mozzarelle prodotte a Berlino vengono esportate anche all’estero, mercato italiano compreso. Marika traccia ai microfoni di Berlino Magazine un bilancio dei primi 26 anni di Francia Mozzarella GmbH, spiegandoci quali sono le difficoltà e i vantaggi di fare impresa in Germania e come i tedeschi si stiano progressivamente abituando a scegliere sempre di più i prodotti di qualità della tradizione italiana.

26 anni di attività a Berlino e in Germania: un bel traguardo.

Sì, siamo molto contenti dei risultati raggiunti. Abbiamo numerosi collaboratori italiani e tedeschi, ma molti provengono anche dalla Polonia, dall’Europa orientale, dalla Spagna. Il direttore di stabilimento e di produzione è italiano, è un ingegnere esperto di realtà casearie che si è formato in Italia. In generale il nostro è un ambiente di lavoro decisamente internazionale. Anche se poi, all’ora di pranzo, la tv è sempre accesa su qualche canale italiano.

Come mai nel 1990 avete deciso di aprire qui?

Perché avevamo tutta una serie di vantaggi e di incentivi che venivano offerti alle realtà industriali che volessero aprire a Berlino. E poi avevamo dei contatti, un piccolo caseificio con cui abbiamo collaborato fino al 1994 per poi rilevarlo. É stato un percorso pieno di soddisfazioni per la mia famiglia, sebbene mai facile, ma a parlare sono i risultati in termini di qualità del prodotto e di fatturato. Noi della generazione più giovane abbiamo provato ad aggiungere le nostre competenze e la nostra conoscenza del tedesco – siamo i primi a parlarlo fluentemente – a una preesistente sapienza imprenditoriale.

Che tipo di mercato coprite con i vostri prodotti?

Posso dire senza timore di esagerare che a Berlino la vera mozzarella è arrivata con Francia. Usiamo prevalentemente latte locale, del Brandeburgo, che è davvero ottimo. Ma la vera differenza qualitativa la fanno i processi produttivi che impieghiamo. Come aree di vendita tedesche, copriamo Berlino e il Brandeburgo, tutta la costa nord della Germania, la zona di Amburgo, la Baviera, il Baden Württemberg. Siamo presenti con il nostro marchio in alcune catene di supermercati molto diffuse come Kaiser’s, Bio Company, Rewe e a Berlino siamo riusciti ad entrare anche in una rete di realtà che vogliono valorizzare prodotti locali e bio. Gran parte della gastronomia berlinese, ristoranti e pizzerie, si rifornisce da noi. Ma con la produzione dello stabilimento di Tempelhof esportiamo anche, arrivando fino a New York. E una grossa percentuale va alla gastronomia in Italia, direi intorno al 50%. In generale il 90% della mozzarella che produciamo qui rifornisce la gastronomia, non le tavole dei privati.

Come lavorate i vostri prodotti?

Sia in Italia che in Germania ci muoviamo su tre tipologie di prodotto: per la provincia, con una scadenza di due giorni; per la regione, con una scadenza di dieci giorni; e per il mercato nazionale-estero, scadenza due settimane. In nessun caso usiamo conservanti, solo accorgimenti produttivi sull’umidità. Lavorare senza utilizzare acido citrico fa davvero la differenza sul piano della qualità: il pizzaiolo o il gastronomo che usano la nostra mozzarella sulle loro pietanze si ritrovano un prodotto con una maggiore resa, ma soprattutto che dal sapore diverso, che sa davvero di latte e non di nulla, come spesso accade. L’acido citrico, certo, ha dei vantaggi a livello produttivo, perché abbrevia determinati processi e allunga la data di scadenza. Ma il suo grave difetto è che non rende il prodotto così manipolabile come lo sarebbe naturalmente. Con questo tipo di lavorazione più genuina il prezzo è per forza di cose leggermente più alto, non possiamo fare miracoli: ma i gastronomi stanno capendo sempre di più che la qualità alla fine paga anche sul piano economico: un prodotto che usa acido citrico avrà una resa inferiore del 20% rispetto a un prodotto naturale in termini di quantità di mozzarella che si può mettere, per dire, sulla pizza in modo che si sciolga bene e copra la superficie desiderata. Dunque il risparmio di chi sceglie il prodotto economico è solo apparente, perché alla fine dovrà impiegare più mozzarella, e i costi alla fine coincideranno. Con la differenza, però, che con una mozzarella scadente la pizza non sarà mai altrettanto gustosa.

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Avete tanti competitor sul mercato tedesco?

È ancora una dura lotta, perché quasi nessuna azienda dichiara la provenienza della materia prima, e in Germania di latte ce n’è tanto. E soprattutto il termine “mozzarella” non è protetto, si può chiamare così qualsiasi cosa sia stata prodotta filando e riscaldando una cagliata. Ci sono aziende che, non potendo lavorare altrimenti, comprano cagliate già surgelate, magari prodotte in un momento in cui il costo della materia prima è particolarmente favorevole, e filano direttamente queste riuscendo poi ovviamente a proporre prezzi fortemente ridotti. Insomma, c’è modo e modo per fare una mozzarella. Non abbiamo concorrenza di aziende capaci di produrre con i nostri metodi, almeno non a Berlino. Forse nel sud della Germania sì. Per il resto si tratta di realtà casearie che spesso fanno un prodotto definibile come mozzarella solo sul packaging, comodo al gastronomo che ha bisogno di risparmiare e che dunque taglia sulla qualità.

Anche i gastronomi italiani lo fanno?

Si, perché è più obbligatorio inserire l’acido citrico tra gli ingredienti mentre fino a qualche anno fa lo era. Penso che le cose siano cambiate anche per forti interessi economici visto che, all’interno del mercato europeo, sia Francia che Germania hanno fra le maggiori realtà casearie mondiali.

Il consumatore tedesco è educato al gusto e attento alla qualità dei prodotti?

Dopo anni di sforzi, anche grazie a una certa strategia di comunicazione che stiamo provando a mantenere, le cose stanno un po’ cambiando, almeno a Berlino. La realtà berlinese è sempre stata più aperta rispetto ad altre zone della Germania. Sempre più spesso il gastronomo di qualità che usa il nostro prodotto ci tiene a far presente che usa una mozzarella di qualità, vuole che appaia il nostro marchio. E pian piano anche il consumatore privato, il tedesco medio, ha iniziato a conoscere il nostro prodotto e ad apprezzarlo. Certo c’è ancora tanto da lavorare, ma io credo fortemente che la ristorazione italiana di livello possa contribuire a “educare” al gusto persone che non sono abituate a questo tipo di cultura gastronomica. È un processo che richiede tempo, e ci vuole una paziente opera di comunicazione in lingua. Noi siamo una delle realtà che hanno deciso di accettare questa sfida, e a Berlino la stiamo progressivamente vincendo anche grazie all’aiuto dei gastronomi che hanno scelto di puntare su una cucina diversa, di qualità. Sono in Germania da otto anni, giro molto per lavoro e vedo ristoratori sempre più esigenti, dinamici, moderni. Per certi aspetti, perlomeno se si considerano i picchi verso l’alto, ho la possibilità di mangiare italiano meglio qui che in Italia. Ho vissuto un anno anche a Torino, e mi sono stupita di trovare ristoranti che cucinano la pizza nella teglia o nel padellino. A Berlino una cosa del genere, all’interno della vera gastronomia italiana, diventa sempre meno probabile. A volte penso che questa “educazione al gusto” di cui dicevamo bisognerebbe farla prima di tutto in Italia!

Fare impresa in Germania è più semplice che in Italia?

Qui in Germania se lo Stato deve qualcosa all’azienda – i rimborsi dell’Iva ad esempio – allora la restituisce puntualmente. C’è chiarezza, cosa che in Italia manca, almeno da quello che mi riferiscono, visto che tutta la mia carriera di sales manager si è svolta all’estero. Qui c’è puntualità nelle scadenze e nei controlli, che però non vengono fatti necessariamente per danneggiare l’azienda, per multarla e bloccare i rimborsi come può accadere in Italia. Nel complesso si riesce a lavorare meglio, è ancora possibile fare imprenditoria, perché qualsiasi realtà industriale ha sì obblighi, ma anche diritti che vengono riconosciuti e rispettati. Sono queste le differenze decisive perché poi il costo del lavoro e le tutele sindacali sono più o meno analoghe. Anche la pressione fiscale è più o meno la stessa, forse qui in Germania leggermente più bassa.

Come ti trovi a Berlino?

Sono innamorata di questa città. Vivo qui da 8 anni, da quando ho finito l’università. Dopo la laurea in lingue c’era già stato un colpo di fulmine con la capitale tedesca, quindi la scelta di trasferirmi e continuare l’attività di famiglia è stata quasi scontata. Coordinare il reparto commerciale marketing è un lavoro che mi piace molto. Ma non tutti i membri della “dinastia” Francia sono coinvolti nell’impresa. Alcuni della mia generazione hanno preferito fare altri tipi di esperienze però sì, siamo in tanti: l’azienda è stata fondata da mio nonno Enrico con i suoi due fratelli, ognuno di loro ha avuto tre figli e così siamo già a nove. Se si pensa che ognuno dei soci della “seconda generazione” ha avuto a sua volta dai due ai tre figli, non è difficile capire com’è che abbia perso i conti all’interno della mia famiglia (ride, n.d.r.).

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