«Io, italiano che insegna in Germania ai rifugiati, vi spiego i programmi di integrazione tedeschi »

All’indomani dei fatti di Colonia, che hanno sollevato seri e comprensibili dubbi sulla possibilità di assorbire un flusso migratorio senza pari dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ci siamo chiesti come funzionassero le politiche di integrazione messe in atto. La Germania ha accolto solo nel 2015 oltre il milione di migranti e rifugiati, distribuiti poi nei vari Länder secondo quote determinate attraverso la cosiddetta Formula di Königster. Uno sforzo enorme a cui sono stati destinati fondi e risorse sul campo della prima accoglienza e dell’integrazione. I minori che giungono in Germania, da soli o con le loro famiglie, sono sottoposti all’obbligo scolastico. Come questo obbligo venga amministrato, varia sostanzialmente da Land a Land. Nella maggior parte dei casi i ragazzi devono frequentare le scuole a partire dal terzo mese dal rilascio del permesso, in classi speciali, in cui l’insegnamento prioritario è quello della lingua tedesca, più altri programmi di formazione e integrazione.
Ci siamo chiesti come funzionasse questo sistema e ne abbiamo parlato con un insegnante che si occupa di Integrazione Culturale in una scuola dell’Assia. Gian Maria Raimondi, cittadino italiano e tedesco, insegna Storia, Etica, Psicologia e Antropologia in una scuola di Hofheim am Taunus, in Assia. E´ docente di ruolo con dignità di Beamter, pubblico ufficiale. In più, si occupa di integrazione culturale in una di queste classi speciali inerenti al progetto InteA.

I programmi di integrazione sono di nuova concezione, per cui c’è molta poca informazione al riguardo. Ci presenti il programma di cui ti occupi?

Si chiama InteA: Integration und Abschluss e riguarda profughi, ma anche emigrati per ragioni socioeconomiche. E´ un corso intensivo di due anni che interessa ragazzi dai 16 ai 18, consta di più materie e si struttura secondo 4 linee. La prima, integrazione psicosociale, trattandosi di persone che vengono da paesi in guerra o soggette a gravi crisi economiche: ragazzi con un vissuto traumatico intorno ai quali lavorano operatori sociali, sanitari e psicologici specializzati in persone che provengono da situazioni di guerra. La seconda direttrice, fondamentale, è l’insegnamento della lingua. Poi, l’integrazione culturale -e qui entra in scena il sottoscritto – in cui si va dall’educazione civica e giuridica all´insegnamento delle norme morali e culturali del paese di accoglienza. L´ultima direttrice è quella della integrazione professionale vera e propria. Al termine del biennio i ragazzi sostengono un esame, superato il quale possono entrare nel mondo del lavoro secondo un altro percorso. Tuttavia, se l´esame finale InteA -per motivi gravi- non viene superato, il loro permesso non sarà rinnovato (unica eccezione: profughi direttamente minacciati da situazioni di guerra in corso). Le linee di questo esame sono in parte ancora da determinare, essendo un progetto di recentissima concezione, ma tiene conto della loro attitudine al lavoro, delle prime competenze teoriche e pratiche acquisite e all’integrazione all’interno della società.

Come viene composta una classe?

La mia “Klasse InteA” è composta da 17 corsisti. Ci possono essere delle sostituzioni, ma il numero rimane invariato. La composizione è del tutto disomogenea. In classe ho due ragazzi siriani, due afghani, due libanesi, un pachistano, uno yemenita, un iracheno, un ragazzo della Guinea, un sudanese, un nigeriano scampato a Boko Haram, un eritreo-tigrino con problemi psicotici, ma anche una ragazza marocchina cresciuta in Italia, una croata di Pola, uno sloveno e un polacco orientale, che sono emigrati per ragioni economiche.

Il numero delle ragazze è decisamente inferiore a quello dei ragazzi. C’è una ragione specifica?

In generale i ragazzi sono sempre più che non le ragazze, in parte perché molti dei rifugiati sono venuti da soli, senza le famiglie, affrontando viaggi pericolosissimi. A questi viaggi le ragazze non sopravvivono, o comunque non arriverebbero fino in Europa. E in parte perché anche nei casi di migrazione con famiglia, le ragazze sono ritenute un bene a disposizione del nucleo familiare, lavorano o si occupano della casa; per cui, anche se tale percorso formativo in Assia è obbligatorio, le famiglie chiedono di ritardarne l’inserimento. Tieni presente che ci sono differenze tra paese e paese. Sicuramente una famiglia croata o una albanese è molto più liberale; ma già i turchi anatolici, o i curdi -non pensare che tutti i curdi siano le guerrigliere del PKK- o i nordafricani, o i pachistani, culturalmente tendono alla sopraffazione con le donne. Per farti capire: in Afghanistan e in Siria NON puoi dire “mashallah” (che è un saluto che ha due significati: ben fatto, l´Altissimo ti benedica / l´Altissimo custodisca la tua bellezza) ad una ragazza: non è solo maleducazione, come sarebbe magari in Marocco. È una offesa alla dignità della donna che in certi contesti tribali possono avere conseguenze serie. Però puoi picchiarla a sangue se lei va in abiti succinti. In Germania tu puoi dire invece “mashallah”: ma non puoi picchiare la donna se va in minigonna. Queste sono cose che non vanno affatto date per scontate, ma vanno tematizzate.

Quindi, secondo la tua esperienza, se è vero che esiste un problema culturale nel trattamento delle donne, non si può dire semplicemente che sia un problema dell’Islam, ma occorrerebbe sempre declinarlo secondo le culture di origine

In generale è importantissimo sapere da dove provengono questi ragazzi. Dire Islam non vuol dire nulla: è come viene inculturato nelle diverse etnie e tribù che fa la differenza. L’islam sunnita ceceno non è l’islam sunnita siriano, se non sulla carta. In generale si può dire che i ceceni siano i più violenti; i siriani, invece, sono molto duri, militarizzati, ma intelligenti; poi devi stare attento ai palestinesi siriani e libanesi; i nordafricani sono i più religiosi, i subsahariani i più volenterosi, mentre gli afghani sono “diamanti grezzi.”

Ma in questo modo non si ricade poi negli stereotipi nazionali?

Io lavoro di continuo con gli stereotipi: li uso, per poi destrutturarli. Io per primo sono amato perchè italiano, ma rispettato in quanto tedesco. Gli italiani sono amati dagli afghani, rispettati dai siriani, considerati dei fratelli pazzi – questo è curioso – dai nordafricani. Italia: “inter”, “pizza”, “mafia”, ma “l’italiano si incazza come un afghano quando il turco prova a prenderlo per il culo”.
La dimensione tedesca, invece, comunica rigore. Può andare bene per un siriano che è più militarizzato, ma di solito non aiuta a comunicare. Tieni presente che i tedeschi in Africa (Togo, Camerun,Tanganika) facevano paura quasi quanto i Belgi, che erano i più arbitrari. I tedeschi, invece, cercavano di instaurare una parvenza di diritto: ma quando questo veniva calpestato, reagivano con durezza scientifica e metodica- cosa che suscita ancora più terrore dell´arbitrio-. In generale, i migranti pensano che la Germania sia un posto severo dove le persone rispettano le leggi, ma non le persone come tali: convinzione che ingenera equivoci , quando non disprezzo, nei latori di culture dove non è la legge, ma la stretta di mano ad essere vincolante.

Ma come si accostano certi argomenti con persone che provengono da culture tanto diverse e che non dimentichiamolo, sono adolescenti?

Facciamo un caso: Amin viene dall’Afghanistan orientale, al confine cinese e tagiko, da montagne dove non si avventurano neanche i talebani. Per capirci, se vede le luci proiettate da un beamer, pensa che sono gli alieni. Si è innamorato di una turca tedesca che frequenta il liceo. Lei però non lo vuole, anche se lui è un bel ragazzo, e lui pensa che sia perché è un profugo. Allora io gli ho detto che il vero problema è che lui parla un tedesco del tutto rudimentale, è inutile che le scriva poemi in dari, lingua che lei non legge. E poi che deve imparare che una donna emancipata è pur sempre una donna: non è una proprietà, ma se le piaci va benissimo che fai il cucciolone -dentro ogni uomo ce n’è uno- e che la devi corteggiare, fosse pure andare a fare shopping con lei, chè non è che sei un “finocchio da lapidazione” se lo fai, e poi la devi invitare a bere qualcosa, e pagare tu, pure se non hai i soldi. E mentre fai tutto ciò impari il tedesco. Alla fine, se non conquisti Aysha, conquisti Aynur…

Questo vuol dire che l’insegnante, lungi dall’essere solo colui che trasmette un certo numero di informazioni, è anche colui che deve trovare un canale di comunicazione. Quindi in qualche modo è messo in gioco in prima persona.

Certo. Per esempio, la collega che si occupa del DaF (Deutsch als Fremdsprache, l’insegnamento della lingua tedesca per stranieri) è un’ottima insegnante, compita e gentile, ma dove emergono problemi di comunicazione si rivolge ad altri colleghi, a cominciare dal nostro mediatore culturale di riferimento che è persona che conosce tantissime lingue di quei posti e ha un rapporto quotidiano coi ragazzi.
Io sono stato imposto per la mia conoscenza dei luoghi, non per mia scelta. Ho provato a rifiutare. Ma sono stato 6 volte in Siria, svariate in Israele, riconosco tutte le parolacce in arabo e i ragazzi se ne sono accorti. Loro non sanno che io ho qualcosa a che fare con Israele. Sarebbe un dramma e l’ho fatto presente quando ho accettato l’incarico.
Del resto, non sono attivo nello InteA per parlare di Israele, ma per introdurre i profughi associati al progetto alla vita in Germania: mi limito a parlare di Israele come di una democrazia, fa parte del loro iter studiorum. E poi faccio loro presente che Israele è un tema da trattare con cautela in Germania. Loro non lo sanno: glielo spiego io.

Chiaramente queste persone vengono da una storia ben diversa da quella occidentale, sulla quale probabilmente hanno idee confuse e sbagliate.

A volte senti dire cose, tipo: “sono in Germania perché avete avuto Hitler”. In Germania! In questo caso, per prima cosa dico loro che Hitler era austriaco di accertata provenienza slava. Poi spiego che non solo ha ammazzato sei milioni di ebrei, ma anche 5 milioni di tedeschi su tutti i fronti; che ha distrutto il paese, le sue infrastrutture, lo ha indebitato fin quasi al crollo e dopo morto ha costretto milioni di tedeschi ad emigrare da Boemia, Slovacchia, Slesia e terre sudete, e cioè che ammirando Hitler ammirano qualcuno che ha ridotto un paese meraviglioso in condizioni ben peggiori di quelle che lasciano loro. Alla fine si è suicidato in un bunker, non ha neanche affrontato eroicamente il nemico. Tutte cose che capiscono.

Cosa ci si aspetta da loro? Qual è in generale il tipo di formazione impartita?

Quello che lo stato tedesco si aspetta da me è che alla fine del biennio sappiano la differenza tra Kreiststadt e Landeshauptstadt; tra Landkreis e Regierungsbezirk; tra Regierungsbezirk e Bundesland, poi tra Gemeinde e Kommune – sapendo perché sono importanti queste differenze e come mai, qui, stato e chiesa sono separati. Allora devi spiegare che dopo la Guerra dei Trent’anni da noi i conflitti di religione sono banditi. Loro arrivano qui con il loro mondo in testa. Arrivano e chiedono del muezzin: il che, non vuol dire siano jihadisti, ma solo che quello è il mondo che conoscono. E io spiego loro che qui ci sono altre leggi e che queste funzionano. Se così non fosse, loro starebbero ancora nel loro paese, dove la sharia è nata o vige e invece vogliono vivere qui, in Germania, e qui c’è il Grundgesetz. E devono capire che il Grundgesetz è vivo: non è solo carta. È vivo come la parola del profeta.

Fammi un esempio di come si può svolgere una lezione in cui spieghi qualcosa che è completamente fuori dal loro orizzonte culturale.

Articolo 1 del Grundgesetz: “Die Würde des Menschen ist unantastbar / La dignità dell’Uomo è inviolabile.” Vuol dire che se Amin prova a picchiare Anwar, io mi metto in mezzo, li porto dal preside, il preside dice loro che alla seconda occasione perdono il posto, che in quel caso andrà a uno dei 370 minori in lista presso il nostro plesso scolastico – vale a dire che a 18 anni te ne torni nella tua terra di sharia.
E poi spieghi loro che l´articolo 1 del Grundgesetz è nato sulle ceneri di Hitler; sulla memoria di chi è stato perseguitato e sull’indignazione di chi è rimasto.
E cioè che non è una frase astratta, ma viva e carica di promesse e sanzioni: questo lo capiscono molto bene, perché sono ragazzi che arrivano da contesti di grande durezza e violenza. La sfida, casomai, è spiegare loro che la violenza non è arbitraria, ma controllata e temperata, in quanto serve a fare giustizia. Al riguardo, si procede per induzione: si spiegano le istituzioni e il tipo di mentalità che sottendono: cioè, come ragioniamo noi europei. Quindi, parti dall’illustrare cosa è il Bundesland e arrivi all’art.1 del Grundgesetz; oppure, spieghi qual è il ruolo della polizia -che non è l’organo di repressione al servizio del dittatore di turno- e si arriva al rispetto della donna in Europa.

Quindi, di fatto, inizialmente almeno, fai leva sulla loro paura della legge, per poi arrivare idealmente al rispetto.

Ti faccio un esempio di come spiego cosa si intende per legge. Facciamo una specie di gioco di ruolo: io sono l’ebreo. “Allora io ti uccido”, dice il wahabita iracheno, che non sa che io sono veramente ebreo. “Non puoi: io qui sono il potere e la legge, proprio come in Iraq il partito Baath prima che arrivassero gli americani. E qui in Germania, gli americani, ci sono già. Quindi, tu devi fare come dico io. Ora, siccome io, ebreo, non uso il potere per levarti cibo, donne e moschea, ma per garantirtene, tu, quando prenderai il potere farai lo stesso con me.” Altrimenti non sei uomo d´onore e la legge ti punisce. La somma di tutti gli oneri e onori personali, in Europa, fanno la Legge. Questo lo comprendono.

Si riesce sempre a trovare un ponte di comunicazione, un ponte culturale abbastanza solido da dare la ragionevole sicurezza che queste persone non siano permeabili alle istanze radicalizzanti, in altri termini che la loro formazione sia sufficientemente solida per non finire nelle reti terroristiche, in un’epoca in cui queste sono riuscite a coinvolgere anche cittadini europei?

Intanto si tratta di un lavoro complesso: prima di me ci sono i poliziotti di frontiera; i mediatori culturali; gli assistenti sanitari e il referente del centro, che spesso ha anche la Vormundschaft und rechtliche Betreuung, la tutela giuridica del minore. Quindi, arrivo io: a me lo stato chiede anche di capire chi è a rischio bombe nei supermercati e chi no.
Poi, però, le informazioni che passo io, le devono tradurre in operatività i colleghi della polizia.
Al termine del biennio i ragazzi devono sostenere un esame completo riguardante tutto il corso (ma la valutazione comincia già dal primo anno), senza il superamento del quale il candidato è considerato non integrabile e rischia di essere rispedito a casa.
Questo tipo di valutazione non è prerogativa esclusivamente nostra, ma è complementare al lavoro svolto dalla polizia frontaliera, che raccoglie informazioni sulla provenienza del soggetto: dati anagrafici, ma anche accertamenti e verifiche su una eventuale esposizione del ragazzo a canali di estremizzazione sia nel suo paese di origine che per strada. Inoltre la polizia valuta se la persona ha contatti con reti o cellule estremistiche in Europa. Si tratta di un lavoro oneroso, in quanto la valutazione viene effettuata caso per caso. Poi ci siamo noi, a contatto diretto coi ragazzi, che a nostra volta esprimiamo una valutazione.

Come viene valutata la pericolosità di un soggetto?

Per esempio: nella mia classe c’è un ragazzo eritreo con problemi psicotici. È soggetto, tenendo presente la debolezza del suo carattere, a radicalizzazione: ma non è radicalizzato. Non è stato a contatto con aree radicalizzanti in patria -e noi possiamo risalire a tali informazioni tramite famiglia, mediatori e autorità locali- e non ha contatti qui. Questo ci fa pensare che sia sostanzialmente incapace di nuocere. Tieni presente che la capacità di fare rete, di mettere a punto contatti, è fondamentale.
Un altro dei ragazzi monitorati a rischio jihad è un ragazzo pachistano che proviene da una rete di forte radicalizzazione, è già stato introdotto, magari come membro di poca importanza, in ambienti radicali, ed ha inoltre contatti nella città di Essen. Non è particolarmente intelligente e la rete ad Essen non è forte, ma certamente presenta più elementi di rischio rispetto all’altro.
Ripeto: noi valutiamo la persona, che poi la polizia traduce in caso. L’intelligenza è elemento di valutazione importante per capire la pericolosità di un soggetto. Prendi l’organizzatore belga degli attentati di Parigi: era uno sciocco, nel senso di fatuo, ma non era affatto uno stupido, aveva capacità logistica e militare, sapeva muoversi e creare rete. Un gruppo jihadista è sempre un team in cui ognuno assolve a funzioni altamente specifiche e fra loro connesse: l’anello debole può facilmente mandare in frantumi la rete. Noi facciamo le nostre valutazioni sulla persona e poi, nei casi a rischio, le inoltriamo alla polizia.
Va anche detto, però, che la nostra valutazione di educatori è vincolante: chi non supera l’esame finale, salve giustificate eccezioni, è di fatto giudicato inadatto all’integrazione e verrà rimandato a casa.

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