La strategia tedesca per combattere il cybercrimine e il razzismo da internet

In un momento in cui la tensione in Germania contro il pericolo di attentati terroristici è altissima, diventa anche rilevante il modo in cui viene gestito il terrore nel Paese.

Lo scopo è non innescare meccanismi di terrore che sarebbero esattamente la sconfitta rispetto ad ogni strategia terroristica.  Emblematico è il caso della Polizia di Mannheim che si  trovata a gestire la comunicazione all’indomani dell’attentato di Heidelberg del 25 febbraio scorso, quando un’automobile si era scagliata contro i passanti uccidendo un uomo e ferendone altri due, e il colpevole era stato fermato con un colpo di arma da fuoco allo stomaco, la rete era esplosa: possibile che non si trattasse di un attentato di matrice terroristica? A giudizio della rete, non poteva trattarsi di altro, e solo la reticenza degli organi di polizia e di stampa, piegati agli interessi di governo, potevano tentare di nascondere ciò che era evidente ai più. Iniziava uno scambio tra la Polizia di Mannheim che twittava: «Uomo guida contro un gruppo di persone, 3 feriti, il sospetto è stato ferito e fermato dalla polizia». 

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Di lì a poco la polizia ha divulgato ulteriori dettagli

Si trattava di un uomo tedesco di anni 35 e non c’era alcuna prova che si trattasse di un attacco terroristico. Questo non è però bastato al popolo del web, che chiedeva quale fosse il background migratorio dell’attentatore e traeva affrettate conclusioni del tipo «i Länder tedeschi devono aderire a più ferme politiche di espulsione. Basta coi migranti!». Questo episodio è notevole perché il linguaggio della polizia è quello di un flame in rete, insegue voci e insinuazioni, stabilendo un precedente finora inedito dei rapporti delle istituzioni con la cittadinanza.  A chi le intimava di «dire tutta la verità o tenere la bocca chiusa», Anne Baas, funzionaria della Polizia di Mannheim, rispondeva: «Dimenticate le buone maniere o mai conosciute? Le informazioni verranno date a tempo debito, non al presente stato delle indagini», aggiungendo subito dopo che il sospetto era un uomo di 35 anni di nazionalità tedesca. Ma neanche questo è bastato a zittire gli utenti e così la polizia di Mannheim ha iniziato a rispondere a tono a ogni singola insinuazione: all’utente che ha twittato «Secondo alcuni amici attivi nella polizia il colpevole di Heidelberg è un rifugiato» la polizia ha prontamente reagito con un «no, non lo è».

Si tratta dell’insurrezione di quella Alt-Right tedesca e non (alcuni di questi tweet sono in lingua inglese) che dopo l’ingresso in Germania di un milione di migranti e rifugiati nel 2015, accusa il governo di coprire i reati commessi da questi ultimi e si inventa una seconda notte di assalti alle donne ad opera di migranti nel capodanno di Francoforte (notizia rivelatasi completamente inventata e costruita sul calco di quella dell’anno precedente, l’assalto alle donne nel capodanno di Colonia).

Ma la caratteristica della comunicazione dei social media è che non basta una comunicazione ufficiale per fermare l’ondata di voci che si susseguono e si alimentano tra loro, di fonti assolutamente non verificate e insinuazioni di vario ordine. Ecco un esempio di “fonti riservate”: “Secondo amici nella Polizia l’attentatore di Heidelberg è un rifugiato”. La polizia risponde seccamente: “No, non lo è”.

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Per arrivare a questo, che ne segna il culmine

La poliziotta riprende il turpiloquio, linguaggio tipico della rete ma non certo dei uffici istituzionali, e risponde all’utente che dice “è un * di tedesco? è un fottuto musulmano! che si fottano fuori dall’Occidente” con un “di cosa * stai parlando?”

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E qui la poliziotta deve rendersi conto di aver infranto un limite linguistico, e smette di rispondere ai troll in rete. Le voci vengono ovviamente fomentate e inseguite dai membri di AfD, il partito Alt-right tedesco, che è solito alla strategia comunicativa di attribuire ai rifugiati ogni crimine e prima che vi sia alcuna prova al riguardo. Per esempio Anne Zielisch, candidata di AfD a Berlino, il cui pseudonimo su Twitter è Klartext, che rimanda cioè a un linguaggio chiaro e immediato, e quindi non adombrato dalle inutili e colpevoli prudenze investigative e comunicative dell’informazione mainstream, scrive: “Nessuna prova di attentato terroristico” deve essere inteso come semplice menzogna. Ricorda Colonia.”
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Un’ora dopo arriva questo Tweet di chiarimento della Polizia: “Una volta per tutte: il sospetto è un tedesco SENZA alcun background migratorio”Tweet 4

Era inevitabile che questo scambio comportasse polemiche, nonché una discussione sui moduli di linguaggio ammissibili da ambo parti, quelle istituzionali e quelle che possono essere voce di timori personali ma possono anche essere politiche atte a istigare la sfiducia verso e le istituzioni e di conseguenza destabilizzare il Paese. Intanto il problema si pone da un punto di vista di cambio epocale di strategie comunicative: la polizia tedesca ha nell’ultimo anno quasi raddoppiato la sua presenza sui social media. Si è passati in un anno da 130 account a oltre 200, in costante crescita. E se la comunicazione in rete è il luogo dell’insulto, del linguaggio volgare e della diffusione di notizie false, è lecito chiedersi non solo fino a che punto possano le istituzioni inseguire questi registri lingustici, ma anche dove sia il confine tra atto lecito e illecito.

Secondo l’esperto di Cybercrimonologia della Scuola di Formazione della Polizia del Brandeburgo Thomas-Gabriel Rüdiger, si tratta di un linguaggio del tutto inedito, che dovrebbe imparare a muoversi tra i toni discorsivi e quelli formali, mentre si osserva la tendenza, peraltro del tutto normale, ad adattarsi  ai toni emotivi del discorso in rete. Non è possibile tra l’altro seguire tutte le richieste degli utenti: secondo la Baan, la poliziotta di Mannheim, gli utenti continuavano a chiedere foto, il nome dell’attentatore e tutto il suo background dimenticando che ci sono indagini in corso e una vittima dell’attentato. Niente poi ha messo fine alle polemiche, fino a che la poliziotta non ha semplicemente smesso di rispondere.
Problema invece di più difficile risoluzione è quello della punibilità dei falsi e delle ingiurie in rete, e cioè quella marea che si muove tra l’hate speech e la fake-new vera e propria. Ci troviamo di fronte a un sostanziale vuoto legislativo. Vuoto che però è urgente colmare. Il cybercriminologo Thomas-Gabriel Rüdiger parla della teoria del Broken Web: mutuata dalla teoria della Broken Window, per cui l’assenza di sanzione dei piccoli reati fa sì che non si inneschino meccanismi imitativi virtuosi, ma al contrario se ne inneschino di degenerativi. Per cui sul periodo lungo i piccoli reati aprono la porta ai reati maggiori. Ed è esattamente quello che sta accadendo nel mondo dei social media, dove la responsabilità personale risulta di difficile attribuzione, e si assiste al fenomeno per cui comportamenti potenzialmente criminali non vengono più percepiti come tali.

Secondo il cybercriminologo la via da perseguire è quella di una progressiva maggiore visibilità della Polizia e della perseguibilità dei comportamenti sanzionabili. Ossia, se non è possibile e neanche auspicabile un controllo diretto di tutte le entrate in rete, sarebbe però possibile cominciare col sanzionare i casi più evidenti o di rilevanza pubblica, in modo da smettere di trasmettere la sensazione di abbandono della rete a se stessa. Anche la recente tedenza ad attribuire ai social media stessi la responsabilità di editor – facebook ha già annunciato lo sviluppo di progetti che includono l’assunzione di partner privati come Snopes e ABC News per il fact checking, implementando inoltre la possibilità di segnalazione delle news e impedendo la pubblicizzazione o sfavorendo l’indicizzazione di quelle la cui attribuzione risulti dubbia, ossia svantaggiandone la visibilità tramite i logaritmi dell newsfeed –  progetto annunciato il 15 dicembre scorso e subito esteso, primo paese dopo gli STati Uniti, alla Germania (e poi alla Francia e all’Olanda, ma non ancora all’Italia) – potrebbe non essere efficace o potrebbe non essere sufficiente. Occorre considerare che il progetto è certamente da implementare essendo in una fase sperimentale. Che si deve tenere conto del fatto che può essere facilmente manomesso, e cioè che molto probabilmente gli utenti segnaleranno le notizie a loro sgradite.

Per quanto riguarda la Germania non è certamente un caso che sia il primo paese a cui vengono estese queste misure. Numerosi sono gli allarmi di possibili ingerenze nelle prossime elezioni di settembre, ed è inoltre il primo paese che minaccia il colosso di una multa di importo fino a 500.000 mentre il 14 marzo il Ministro della Giustizia Heiko Maas ha proposto di portare fino a 50.000.000 di Euro la multa per il mancata cancellazione di commenti d’odio.   Euro in caso di mancata rimozione di notizie contestate.

Lo sviluppo di un modello in cui siano chiamati in causa tanto le responsabilità degli editor quanto quelli dei governi e che non risulti meramente censoria e liberticida ma che al contrario venga incontro alle esigenze dei tempi non sarà probabilmente di brevissima durata, e non è probabile che sia sviluppato prima delle elezioni tedesche di settembre. Del resto l’attenzione su un tema che era ritenuto secondario e appannaggio di pochi specialisti si è risvegliata veramente solo all’indomani dell’imprevista vittoria elettorale di Donald Trump negli USA. Tutto questo fa oggi della Germania un laboratorio di quelli che saranno gli strumenti democratici del futuro.

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