Se il Muro non fosse mai caduto…

Spalle al muro di Elisabetta Ilaria Limone 

(dal Workshop di Scrittura Creativa “Scrittori Emigranti”)

53 anni, eppure non li dimostra. Questo ammasso di cemento ha 53 anni. Lo vivo, lo tocco, lo sento con tutto il mio corpo da quando sono nata. Il muro della vergogna, come tutti lo chiamano.

Ancora qui, fiero nella sua potenza, nel suo spessore. Si innalza al cielo quasi come se volesse toccare le nuvole grigie che pesantemente si muovono su questa città divisa, straziata. Sono una Ossi, come mi chiamano i Wessi. Gioco di parole che lascia trapelare la divisione anche nel modo di esprimersi di tutti noi. Un muro non solo di cemento che divide fisicamente la città, ma un muro tra corpi, menti, pensieri, emozioni. Sempre più barriere vengono erette. Saremo un giorno costretti a rinchiuderci in noi stessi, a innalzare barricate per mantenere il nostro spazio vitale. Eppure vorrei tanto condividere il mio spazio con quello altrui. Non mi è però permesso.

Ogni giorno percorro la Heidelbergerstraße, dove fu scavato uno dei tanti tunnel della fuga. Da anni nessuno tenta ormai di scavarne altri. Saranno forse tutti abituati e affezionati a questa prigione? Da li continuo per la Elsenstraße, Stralauer Allee e giungo finalmente alla Mühlenstraße. I miei piedi si fermano, non osano oltrepassare il limite. Punizione: la morte. Nulla è cambiato, tutto è rimasto così come fu stabilito nel 1961. Avvicino il viso al muro che mi separa dalla linea della morte, che a sua volta è delimitata dal secondo muro, quello che affaccia sulla Berlino Ovest. Cielo grigio, freddo pungente. Il lato del muro dove mi trovo è altrettanto grigio e freddo. Lascio che le mie guance tocchino a lungo il gelido corpo del muro, ruvido, umido. A stento percepisco l´abbaiare di un cane, ma non mi spavento, rimango lì, immobile, in uno stato di panico. Le mie mani irrigiditesi per il gelo si alzano lentamente e iniziano a toccare il muro, inizialmente quasi come se volessero accarezzarlo. Pian piano i movimenti degli arti superiori diventano frenetici, nervosi.

Le mie mani si chiudono a pugno e iniziano a battere contro il muro fino a sanguinare. Ma nessuno mi sente, nessuno mi vede. I cani continuano ad abbaiare ferocemente, sento i passi dei soldati sempre più vicini, minacciosi. Mi sembra quasi di sentire il loro fiato sul collo. Mi giro di scatto, ma non c´è nessuno. Sono sola, sola con le mie mani chiuse a pugno che ormai debolmente battono contro il muro. Per un attimo ho pensato di poter abbattere questo ammasso di cemento. Ma solo per un attimo, che però è sembrato durare un´eternità. Inizia a piovere, l´aria si impregna dell’odore di terra umida. Le mie scarpe iniziano lentamente ad affondare nella fanghiglia, ma rimango ancora lì, stavolta poggiando le spalle al muro. Chiudo gli occhi, inalo l´odore di terra bagnata, sollevo il viso al cielo, accendo una sigaretta e la fumo con voracità. Il fumo della sigaretta mi avvolge, proprio come un secondo muro. Poi, lentamente, mi libera e serpeggiando si dirige verso il cielo grigio.

Foto d copertina: East Side Gallery, Berlin © Necrophorus CC BY-SA 3.0

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