Torneranno i prati – Il film di Ermanno Olmi per non ripetere gli errori della storia

Una capanna sommersa sotto quattro metri di neve, i vari dialetti dei soldati italiani che si mescolano in un sussurro, giornate passate ad aspettare il proprio destino all’interno della trincea, dove i topolini diventano amici con cui razionare il cibo e i compagni di camerata l’unica famiglia possibile in un momento di tragedia assoluta.

Ermanno Olmi, premiatissimo regista e produttore cinematografico italiano, all’età di 83 anni ci propone il suo ultimo capolavoro, presentato fuori concorso al Festival del cinema tedesco per la categoria Berlinale special: una poesia color seppia incentrata sulle condizioni umane dei veterani della Grande guerra.

Il suo scopo, dirà, «è quello di saldare un debito che noi tutti abbiamo con loro e che ancora ci portiamo».

Siamo nel 1917 sul fronte italiano nord-orientale, un canto malinconico in dialetto napoletano si innalza nel cielo plumbeo, al confine con l’Austria. Il conducente di un mulo (Andrea di Maria) che porta la posta e canta è l’unico ad avere accesso libero fuori dalla trincea, proprio grazie alla sua voce gradita ai nemici che non gli sparano pur di continuare a sentirla, una tregua all’interno del grande gioco spietato della guerra.

All’interno di una trincea popolata da uomini infreddoliti, ammalati, stanchi e scoraggiati giunge il crudele ordine portato da un maggiore (Claudio Santamaria) e un tenentino (Alessandro Sperduti) al tenete in carica del fortino (Francesco Formichetti) di impossessarsi di una roccia distante pochi metri dalla linea di difesa per installarci un nuovo collegamento telefonico. Il tenente si rifiuterà di far eseguire ai suoi soldati, di cui vuole i nomi e non i numeri, un gesto così insensato e atroce che li porterebbe a morte immediata, rinunciando in preda ai deliri della febbre ai suoi gradi «preferendo di riprendersi la sua dignità». Pur non dicendolo esplicitamente il film rimanda alla sconfitta di Caporetto.

Ambientato nell’arco di tempo di una sola notte, in cui i soldati di vedetta si soffermano sulla bellezza della natura e le bombe che arrivano impietose sempre più vicine, ricordiamo tra le scene più dure quella di un sodato che preferendo di morire al caldo insieme alla sua “famiglia” si spara un colpo di fucile in testa pur di non farsi ammazzare al freddo dai nemici.

Il film dal titolo scritto a caratteri piccoli non ha bisogno di imporsi nemmeno con l’uso grafico delle maiuscole, può solo essere osservato in religioso silenzio al di fuori di ogni giudizio critico.

L’intento del regista è quello di far ricordare queste persone, chiedere loro scusa per essere state mandate al macello, ecco perché di grande importanza è l’uso dei nomi propri di alcuni soldati: «Non si può chiedere loro scusa se non si sa il loro nome».

«Ci sono milioni di ragazzi morti in quella guerra a cui nessuno ha detto più niente. Sono appesi agli anniversari, nient’altro, dopodiché tutto torna alla normalità. Allora non è che noi tutti i giorni dobbiamo suonare le fanfare o sventolare le bandiere, ma tutti i giorni dovremmo cercare di trovare un motivo che sia una risposta a questi ragazzi che dall’aldilà ci interrogano ma che invece si fa presto a dimenticare anche se non si capisce come mai. La memoria deve diventare elemento critico del presente».
Il tema della prima guerra mondiale è il modo per ripartire da uno scontro dimenticato che ancora conserva un certo carattere umano, precedente alla follia totale della guerra successiva con le assurdità della bomba nucleare o il genocidio raziale.

Il film appare come un monito non molto diverso dalla famosa citazione di Einstein «Io non so con quali armi sarà combattuta la III Guerra Mondiale, ma so che la IV Guerra Mondiale sarà combattuta con pietre e bastoni».

Di questo film un elemento che non si può fare a meno di ammirare è la fotografia a cura di Fabio Olmi figlio del regista, girato in pellicola a colori e poi desaturato, ottenendo su indicazioni di suo padre delle scene in cui il freddo viene percepito in pieno, così forte che ti scortica la pelle.

Il film è un’esperienza emotiva unica e necessaria diversa da ogni altro film di guerra, per ricordare ciò che è accaduto e far si che non si ripeta.

Il 4 novembre 2014 è stato proiettato a Roma e in concomitanza nelle ambasciate di 100 paesi nel mondo, compresi i luoghi in cui sono di stanza i contingenti militari italiani per le missioni all’estero.

La spiegazione del titolo è affidata alla voce narrante di uno dei soldati, il quale spiega che i corpi dei soldati caduti venivano seppelliti nella neve così che in primavera quelli reclamati potevano avere degna sepoltura, mentre molti sarebbero rimasti lì ignoti.

«Finirà la guerra e torneranno i prati, non si vedrà più nulla, non i cadaveri dei soldati nei cimiteri improvvisati né la neve, e tutto sarà dimenticato».