Alexanderplatz e l’uomo misterioso: un incontro all’ombra del Muro

Banane e Gummi Bärchen (caramelle gommose a forma di orsetti): presenti. Un paio di jeans? No davvero, quelli non saprei dove metterli e non voglio esagerare. Mio marito insiste, vorrebbe davvero che Julia ne avesse un paio. Io abbozzo un sorriso materno e lui si dirige verso la porta. Quando reagisce così, andandosene senza parlare, significa che devo darmi una mossa. Lasciare l’Ovest lo rende sempre nervoso. Un paio di minuti dopo sono da lui.

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L’ultima visita a casa di sua sorella risale a settembre, quando splendeva un tiepido sole. Oggi invece il cielo avvolge la città con il suo grigio manto e l’inverno è alle porte. Berlino Est ci attende anche questa volta e, come sempre in questi casi, il nostro umore non è dei migliori. I suoi edifici in stile sovietico, le strade anonime, il clima di tensione che si respira ovunque, gli interminabili controlli, il dover affrontarli da soli. In quanto cittadina danese, seppur io viva a Berlino Ovest da anni, devo passare dal Check-Point Charlie. Mio marito invece, nato e cresciuto a Berlino Ovest, non effettua i controlli con me. Come al solito ci diamo appuntamento ad Alexander Platz, ai piedi di quella torre che io non amo ma che, devo ammetterlo, sembra davvero abbracciare i suoi osservatori, almeno fino a tarda sera, prima che giunga la mezzanotte e scatti il coprifuoco per tutti noi. Dopo esserci ritrovati optiamo per il solito Café non lontano dal Rotes Rathaus (municipio di Berlino Est all’epoca del muro, oggi sede del comune della capitale tedesca).

“Non smetterò mai di trovare assurda questa prassi”, bofonchia mio marito mentre sorseggia la sua Vita Cola (tipica bibita della DDR, un’imitazione della Coca-Cola) . “A che cosa ti riferisci? Al fatto che la tua bevanda contenga meno zucchero dell’originale?”, rispondo io beffarda, pur conoscendo già la risposta. “A me piace. In ogni caso, mi riferisco al mio documento d’identità, al dover avere una foto scattata dal lato destro”. Tra i molti aspetti della DDR che mio marito trova assurdi c’è il fatto che i berlinesi dell’Ovest e i tedeschi dell’Ovest debbano mostrare l’orecchio destro ai controlli per entrare nell’area orientale della città. “Che cosa dovrei dire io? In quanto cittadina straniera percepisco, se possibile, una tensione ancora maggiore quando…” Mi interrompo. Un signore accanto a noi non ci ha staccato gli occhi di dosso un secondo e non capisco che cosa ci faccia qui, se non ha nemmeno ordinato qualcosa. Rivolgo a mio marito uno dei nostri sguardi più complici, uno di quelli che, quando ci troviamo a Berlino Est, rappresenta un campanello d’allarme. Lui comprende, anzi, condivide la mia preoccupazione e ribatte a voce alta, con fare apparentemente tranquillo: “E’ bello poter rivedere mia sorella e soprattutto mi rende felice l’idea che lei sia soddisfatta della sua vita qui. Per nulla al mondo si immaginerebbe mai altrove.”

Quello sconosciuto sembra colpito dalle parole di mio marito, ma al contempo finge – invano – indifferenza. In ogni caso, quando Christoph mente in tal modo avverto una sensazione spiacevole; lui è l’ultimo degli attori e trovo che talvolta esageri: non è credibile, anzi. Sebbene il disappunto sia scritto a chiare lettere nei miei occhi, lui incalza: “Oggi i controlli sono stati velocissimi. In ogni caso te lo prometto, Erika, una visita veloce da mia sorella e poi dritti a casa. Non voglio che nostra figlia trascorra troppo tempo da sola con tua madre”.
Per un istante il suo sarcasmo mi allontana dal luogo e dal momento che sto vivendo e mi riporta al nostro accogliente appartamento di Schöneberg. Il sorriso della mia piccola Maren è la cosa più preziosa per me e allontanarmi da lei per attraversare il Muro mi lascia tutt’altro che indifferente. Purtroppo, da quando Julia ha deciso di seguire suo marito ad Est, ciò accade di frequente.
“Cara, torno subito”. Eccomi di nuovo scaraventata nella grigia realtà “Dove vai?” domando a Christoph preoccupata. “Devo pagare le nostre consumazioni e soprattutto devo lasciar scorrere un po’ di acqua fredda su questa ferita” “Ferita, quale ferita??” trasalisco. Sono troppo agitata. “Oggi mi sono tagliato per sbaglio, subito dopo i controlli. Torno subito” – ripete. Il suo sguardo è dolce e rassicurante, sa che non amo restare sola quando ci troviamo qui. Si alza velocemente e si incammina verso una porta spoglia mentre io mi lascio distrarre dall’imponente Municipio Rosso; nella mia mente un fiume di pensieri. Dopo qualche minuto percepisco una mano fredda sfiorare la mia spalla: è l’uomo sconosciuto. I suoi occhi sembrano custodire dolore e mistero, le sue labbra sottili si muovono velocemente. Mi sta sussurrando qualcosa. Ma io non sento nulla: il timore mi impedisce di essere presente a me stessa in quel momento. Continua a fissarmi. “Erika!” Ecco mio marito finalmente. Voglio andarmene subito, eppure lui mi trattiene mentre si rivolge a quell’individuo: “Ha bisogno d’aiuto?” Nessuna risposta. “Erika, di che cosa stavate parlando?” La presenza sconosciuta mi guarda e sembra attendere impaziente una mia reazione. Non sono libera di ribattere come vorrei, ripenso agli occhi blu della mia piccola Maren e faccio appello a tutta la forza di cui sono capace per mostrarmi esattamente come non sono. “No tesoro, non so di cosa tu parli, ma se lo desideri possiamo trattenerci ancora un po’”. L’uomo misterioso ripete le parole che non avevo udito ma che avevo letto sulle sue labbra: “Vi prego, sono disperato. Desidero…” La sua voce si fa sempre più impercettibile: “Voglio lasciare questo posto e voi siete una coppia cosi giovane” – prosegue – “vi prego, aiutatemi”.
Christoph sembra aver cambiato idea. I nostri pensieri scorrono all’unisono, ininterrottamente. Sento il gelo scorrere nelle mie vene. Mi sono state raccontate tante storie, Berlino Est è il regno dell’insicurezza, della delazione. Non ci si può fidare nemmeno del vicino di casa che ti invita per un tè a casa sua. Provo a rispondere qualcosa, ma è più forte di me: non ce la faccio. All’improvviso mio marito risponde risoluto per entrambi. “Mi dispiace ma noi non sappiamo e non vogliamo sapere nulla. Non potremmo mai esserle d’aiuto in alcun modo. Auf Wiedersehen“. “Non capisco” – risponde lo sconosciuto – “Vi prego, aiutatemi, non posso restare qui”. Christoph non parla più, sento che mi trascina via. Quell’uomo ci sta seguendo e improvvisamente diviene un torrente in piena: “Siete cittadini dell’Ovest, vero? State andando a Prenzlauer Berg? Per favore. Vi ho ascoltati, comunque…”.

All’improvviso scorgo il marito di Julia. Sono venuti a prenderci. Io e Christoph finalmente non siamo più soli, e quella presenza inquietante sembra essere sparita. “Hans-Peter! Che bello vederti” gli sorrido nervosa. Lui non ricambia il saluto ma sussurra: “Erika, ti prego, dimmi che non avete dato retta a quell’uomo”. Christoph sembra trasalire – “Perché?? Perché?” – gli domanda. Hans-Peter non risponde e ci fa cenno di entrare nella sua nuova Wartburg. Nell’auto Julia ci prende le mani. “Fratello mio, Erika, sono desolata per avervi fatto aspettare oggi. La prossima volta incontriamoci direttamente nel nostro appartamento. La prudenza non è mai troppa..qui.”
Suo marito accende il motore, l’auto riparte e con essa svanisce il mio desiderio di porre ulteriori domande, mentre mi abbandono alla stanchezza accovacciandomi sul sedile posteriore.

Sono trascorsi circa tre anni da quel pomeriggio e il muro è caduto lo scorso 9 Novembre. Oggi mi trovo dinnanzi alla Porta di Brandeburgo ma non ho ancora il permesso di attraversarla. Maren è incontenibile. “Bitte, bitte bitteee!!” (per favore in tedesco) “Sì, piccola mia, vai pure. Ti aspetto qui con tuo padre”. Mi fa effetto osservarla attraversare quel monumento, mano nella mano con la madre di mio marito. “Perché non vai con loro?” – gli domando – “Tu sì che potresti in quanto cittadino tedesco! Io lo desidero da sempre. Ti invidio, sai? “. “Accadrà quando tutto si sarà sistemato. Lo farò non appena la burocrazia lo permetterà anche a te e lo farò con te. Soprattutto, prima di allora mia sorella Julia avrà un nuovo paio di jeans”. Gli sorrisi. “Adesso però” – aggiunse guardandomi fisso negli occhi –  “voglio confidarti una cosa che riguarda quel lontano particolare pomeriggio ad Alexander Platz…”. La Stasi – lo interruppi – si trattava di uno dei loro. L’ho sempre saputo o meglio, immaginato, ma non me la sono mai sentita di rivelartelo. Intendevi proteggermi, volevi evitare che le nostre visite a Berlino Est diventassero per me un incubo”. “Ecco, più precisamente quell’uomo era un loro IM (dal tedesco inoffizieller Mitarbeiter, collaboratore non ufficiale) – rispose Christoph, guardandomi sorpreso. Posai il mio indice sulle sue labbra. “Es reicht (basta così)” furono le uniche parole che pronunciai. Non volevo più tornare con la memoria a quegli istanti. Lui mi rispose con un abbraccio insieme malinconico e gioioso, un abbraccio di cui ricordo ancora il calore, mentre la nostra Maren si allontanava sorridente e fiera per la prima volta al di là della Porta di Brandeburgo e il sole pennellava il cielo autunnale di una luce cupa, ma al contempo quasi accecante. Una luce nuova.

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