Il Berghain, le sue dark room e la sua filosofia non sono per tutti

di Josué Marone* (NB: tutto ciò che segue è opinione unica del suo autore e non rappresenta quella generale di Berlino Magazine)

Il Berghain. Quaranta minuti di fila, più o meno. E’ domenica mattina presto. Se scegli l’orario giusto, ti eviti le file di due ore e mezza. Non che quaranta minuti siano pochi, comunque. La costruzione è imponente, grigia, delle alte finestre vetrate da cui non si vede nulla. La fila è ordinata, niente spinte, la gente è terribilmente seria, concentrata, in preda all’ansia. Nessuno proferisce parola, questione di vita o di morte. Probabilmente avranno letto su internet che non fare casino durante l’attesa aiuta. Ed ecco una fila di persone, quasi tutte vestite di nero (avranno letto anche quello online) che aspetta in silenzio religioso di arrivare davanti la porta. Qualcuno parla, ride, fa chiasso. Si tratta di persone più rilassate, sicure di entrare, degli habitué probabilmente. Vengono guardate male da tutti. Si leggono varie cose sul web, diverse false, diverse vere. Al contrario di quanto pensassi, la selezione all’ingresso ha ragione di essere definita impossibile, o giù di lì. Quasi tutte le persone vengono invitate a prendere la strada a destra dell’ingresso, cioè quella verso il parcheggio dell’Aldi Market. Cioè, in poche parole sei fuori. Nein. Il ragazzo della reception dell’ostello, un berlinese che passa i weekend a clubbare, mi dirà poi di averci provato 11 volte e di esserci riuscito soltanto una volta, ma non era nemmeno il Berghain, si trattava del Panorama Bar. Mi dirà poi che sono stato terribilmente fortunato, perché non è così facile neanche per le persone del posto. Il club è ormai sulla bocca di tutti, ma poco cambia. Ci entrano comunque in pochi.

La fila del Berghain è un riassunto generazionale di quella che è Berlino ai giorni d’oggi. In un certo qual senso, anche solo la fila è interessante e divertente. Ne vedi di tutti i colori. Non di rado qualcuno reagisce male all’esclusione e inizia ad urlare o a dimenarsi in preda a delle crisi nervose. Qualche Napoletano si lancia in un “Sfacimm e mammt”. Sven fa un dito medio, o, con più classe, pronuncia un “Guten Nacht”. Qualcuno chiede “Perché”, e lui risponde “Perché così ho deciso”. Una Coreana mi si avvicina mentre fumo una sigaretta, mi chiede se sono da solo. Le dico di sì. Mi chiede se può entrare con me. Le dico nuovamente di sì. Dice che le piacciono le nuvole di fumo che mi escono dalla bocca. Per un attimo penso che da ora, in coppia, le probabilità di entrare si sono abbassate. Lei inizia a parlare della fotografia, di Berlino, dell’università. Penso nuovamente che le nostre possibilità si stiano azzerando, ma dopo un po’ inizia ad interessarmi poco, mi divertono tanto gli sguardi degli altri che vorrebbero dirmi “State zitti, cazzo, cristo, cazzo”.

Sembra di essere sulla strada verso la Mecca. Italiani, quasi sempre “Nein”. Siamo quasi arrivati, la coppia di modelli gay davanti a noi entra; “Wie viel sind Sie?”, mi fa il buttafuori; rispondo “wir sind zwei”. Mi chiede di aspettare un secondo che arrivi Sven. Basso, torchiato, totalmente punk, con degli occhialini viola. Ha stile da vendere. Mi guarda due secondi e poi “Ja”, mi fa cenno di entrare. La Coreana mi si avventa addosso e inizia a ringraziarmi. Breve corridoio e poi a sinistra, ci controllano le tasche, i portafogli. Niente carta d’identità, ma non ci metterò molto a rendermi conto di essere l’unico minorenne in giro. Probabilmente l’unico sotto venti anni e passa. Arriviamo alla cassa, pago con la venti di carta e il tipo mi getta il resto sul bancone, divertito. Berlin style. Mi ritrovo in un antiatrio, il guardaroba. ;la tipa del guardaroba, rasata e tatuata in testa, mi guarda e sorride mentre consegna la collana dell’armadio alla Coreana. Varchiamo il guardaroba, ed inizio a realizzare abbastanza velocemente di essere capitato in un posto più unico che raro, per il quale probabilmente non bastano le parole per riuscire a descrivere le sensazioni, se non svariati “Cazzo”, detti a mo’ di stupefazione. Un enorme atrio vuoto, cemento su cemento, una scultura nel mezzo, delle panchine di cemento con della gente accasciata sopra, cemento. Un bar, il bancone di vetro con dentro delle sculture di Piotr Nathan di uomini che se lo succhiano a vicenda. “Rituals of Disappearance”, il nome dell’opera. Rimango come un coglione per qualche secondo a cercare di capire dove andare e cosa fare, nessuna indicazione, niente di niente. Donne e uomini, seminudi, che entrano ed escono, probabilmente si dirigono alla dark room del pian terreno. Opto per le scale, le enormi scale di ferro, è da lì che proviene la musica. Una massa di gente si muove a ritmo epilettico nell’oscuità del main floor, illuminata ogni tanto da luci blu.

La musica spinge, ti attraversa, ti poggi una mano sul petto e senti la trascrizione in vibrazioni di quello che esce dalle casse del miglior impianto al mondo. Il fumo avvolge tutto, i lampi blu sono l’occasione di adocchiare la gente che ti circonda. Ho immediatamente pensato alla Berlino sporca; allo zoo, al trash, a queste persone con uno stile incredibile, una personalità incredibile, che mi circondano, 30, 40 anni. 50. Ho subito realizzato il perché del mancato ingresso della maggior parte degli Italiani, dei ragazzi troppo giovani e più in generale di tutti quelli che fanno la fila, anche Tedeschi. Ho realizzato l’enorme utilità della selezione, e ho scoperto che la maggior parte delle persone che frequentano il club la condividono appieno, ne vanno fieri, perché così tutte le persone inadatte non entrano. Un viavai di gay alle scale che portano al laboratory, un piccolo club al lato. Di solito ci sono le serate solo da dietro, quelle solo pelle, quelle solo gruppo, quelle pioggia gialla. Assaggio lo schifo. Non mi sono informato. Poco importa. Tanto la gente che si ammucchia me la trovo anche così, di fronte, sulla pista principale. Qualche obeso passa a petto nudo, tutto sudato, chiaramente mi sfiora. Amen. Mi lascio andare, le ore passano, mi sembra di essere in un altro mondo, tutto è permesso. Ogni tanto qualcuno passa e raccoglie le bottiglie per terra o le sigarette, molti fumano in pista, c’è anche un distributore per evitare di uscire dal club. Vado a prendermi una birra al bar vicino, servono poca roba, ma non importa a nessuno.

Salgo su, al Panorama Bar, l’atmosfera è più rilassata, le luci più “accoglienti”. I bagni non hanno specchi, soltanto cabine fatte per 5 persone alla volta, in caso di sesso di gruppo, non si sa mai. Riscendo giù, un uomo sui 30 con dei baffetti clamorosi mi sfida, mette in atto le sue mosse da clubber vissuto. Qualcuno spinge o calpesta i piedi e poi si scusa con un sorriso, fanno sempre così. È una grande famiglia. Penso che bello, tutti sorridono. Fumo, sorrisi, copulamenti e cemento.E droga, ma non ne vedo dentro. Probabilmente la gente si fa fuori e poi rientra. Qualcuno viene beccato a farsi dentro e con una violenza inaudita viene trascinato di peso dalle guardie. Non metterà mai più piede al Berghain. Così come chi fa foto o video. Ho l’occasione di testare le darkroom al primo piano, al primo giro ci stanno anche i distributori di preservativi gratis. Bene, perché né io né la Coreana siamo stati lungimiranti. Efficienza Tedesca. Al secondo giro i goldoni sono finiti, ma non è un problema. Le due nuove ragazze che ho conosciuto e che mi hanno invitato nella stanzetta ne hanno la borsa piena, erano preparate. Efficienza Tedesca. Una di loro due ha le braccia interamente tatuate, una carpa koi, ed una splendida farfalla con dei petali intorno sulla natica. E’ quando fuori non c’è più libertà che nascono posti come questo. Posti dove la gente si sente libera, in uno stato primitivo, lontano da occhi critici, in mezzo a pari, sicuri di non essere criticati. Usciamo dalla dark room, mi offrono una birra, balliamo. La musica mi avvolge, mi attraversa, è come fare parte di una setta, c’è un’eterna aurea di segreto. Tutti se la godono, consapevoli del fatto che la maggior parte non può. Può soltanto immaginare, e limitarsi a fare la fila. Più volte.

Qualcuno non sta molto bene e allora si addormenta sulle altalene o sulle panchine di cemento, arrivano i ragazzi del club, li accompagnano fuori. “20 minuti di aria fresca e poi torni, ok?”. Storie di vita di gente diversa si incontrano nello stesso posto, storie di una cultura rinata con il crollo del muro, quando la techno e la musica elettronica diventano parte di una cultura, ne fanno da colonna sonora. Questo desiderio di sfuggire alla realtà, di nascondersi al buio, sotto i bagni di suono che cola come oro, e ammutolisce tutti. Mi sento vuoto, distante dal mondo, rifugiato. La mia mente inizia a camminare nella notte, e non si ferma mai, una notte cupa, ma accogliente. Un uomo ha la maglietta dei Joy Division, che è anche la band preferita di Sven. Un pezzo dei Joy Division potrebbe fare da colonna sonora a questo posto e a questa gente senza alcuna speranza, piena di idee difficilmente realizzabili, con un’inaudita voglia di trasgredire e sentirsi diversa, mentalmente. Gente controcorrente, e a nulla serve vestirsi in modo diverso per apparire. Fanno tutti così, ma non entrano lo stesso. Semplicemente non fa per te. E’ una questione di idee, di essenza, di sentirti a tuo agio, di avere una mente aperta. Quella voglia di rifugiarsi.

Chiudo gli occhi, ogni tanto li riapro ed eccoli che dondolano, come una marea ammaestrata al suono del dj, che cavalca l’onda, la doma, ogni tanto ci si tuffa dentro. E’ una dimensione parallela dove non esiste il silenzio. “Il Berghain non è solo questione di musica, e chi ci è stato lo sa”. Il Berghain è una storia condivisa. Quando esco è giorno, c’è una coda enorme all’ingresso, gente che si scanna, il solito. Dei ragazzi Italiani iniziano ad urlare, dicono di essere stati ad Ibiza, di frequentare tutti gli eventi, di capirne.

Una invece piange, la consolano offrendogli una sigaretta. Davvero carina, ma si sa, essere belli non basta, quando dici di no a Rihanna e Britney Spears. Il Berghain è un posto profondamente democratico. Se ci entri. Niente VIP policy, niente bottiglie stappate, niente gente che stappa. Tutti sono uguali, e nessuno deve dimostrare niente a nessuno. Degli Inglesi non sono entrati e stanno bestemmiando a profusione. Gli dico che è così, anche se in realtà capisco bene il perché. Metto gli occhiali da sole e mi incammino verso l’ostello. Incrocio qualche donna con il passeggino che si dirige verso il parco più vicino. Non riesco a pensare a niente, se non a metafore distruttive sulle generazioni che verranno. E’ un po’ così, un posto che ti lascia diverso la mattina dopo, frequentato da persone con una mente diversa. Entrare è una questione di “attitudine”, dichiarano i proprietari del posto.

Prendo il tram e dopo due fermate sono a fare colazione. La giornata passa, non vedo l’ora che arrivi la notte. Riposo. Ceno. Camminando per strada ormai li riconosco, quelli che passano le nottate lì dentro; dico ai miei amici “Eccolo, uno del Berghain”, guardiamo meglio, ed ecco anche il timbro. Non sono molti, ma si riconoscono. Il Berghain non è un semplice club. Arrivo, questa volta lo sento più vicino, non è più un mistero. Lo sento già parte di me. Faccio vedere il timbro e passo. Un buttafuori a cui avevo prestato l’accendino la mattina stessa mi saluta. Mi avvio verso le scale di metallo, la musica inizia ad invadermi di nuovo, come la notte prima. L’inno dei disadatti ha un bel suono.

*Josué Marone: un po’ cantante, un po’ scrittore, sarcastico e cinico, amante dei film Cechi con sottotitoli Macedoni e di Berlino. Non cura niente, perché il niente è facilmente curabile. Dimentica spesso di pulire la lettiera

Foto di copertina: Berghain at Night / Berlin © Michael Mayer CC BY 2.0

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