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Berghain vs Cocoricò: in Germania nessun sedicenne sarebbe morto per overdose nel migliore club

Riccione, cuore della movida romagnola. I giovani si riversano per le strade, i locali sono pieni. Si beve, si gode dell’aria finalmente più fresca, si sfoggiano i migliori outfit e ci si prepara a un’altra notte brava. I club e le discoteche non mancano, ce n’è per tutti i gusti: sulla spiaggia o più all’interno, musica commerciale o musica elettronica. In Riviera tutti sanno come divertirsi, forse però non tutti conoscono i limiti.

L’eccesso è di facile portata. Non servono indagini approfondite per immaginare la facilità con cui si può accedere a una buona dose delle droghe più comuni: cocaina, mdma, ecstasy. Per non sentire la stanchezza, il caldo, per non farsi infastidire dalla folla, dalla musica a volumi estremi, per arrivare all’alba ancora carichi e magari continuare la serata in uno dei tanti after-party sparsi per la città. O semplicemente per curiosità. Per giocare con i rischi della vita. Per ingenuità. Perché da giovani la percezione del pericolo, il senso della responsabilità e l’attrazione per lo sballo hanno un modo tutto loro di presentarsi.

Aveva solo sedici anni Lamberto Lucaccioni, il ragazzo che nella notte fra il 18 e il 19 luglio ha perso la vita all’interno del Cocoricò, uno dei più famosi club italiani (fra i primi in classifica in molti ranking internazionali), dopo aver presumibilmente assunto una pasticca di ecstasy o dell’Mdma.

No. A sedici anni non si dovrebbe morire per la droga in un locale notturno. A sedici anni ci si dovrebbe sbucciare le ginocchia sullo skateboard, forse al massimo iniziare con qualche sigaretta e considerare un Bacardi il massimo dello sballo.

A sedici anni non si dovrebbe avere la possibilità di entrare in una discoteca come il Cocoricò dove la droga scorre come piccoli torrenti sotterranei, di mano in mano, poco difficile da raggiungere, dove ritrovarsela sotto la lingua è un attimo. Dove la cultura del clubbing prende troppo facilmente la fisionomia di una cultura dello sballo e della droga, dove la condivisione di un piacere – quello della musica – si sostituisce con una condivisione di massa dell’alterazione e del “fuori da sé”.

Certo, qualcuno sostiene che l’età non conti, che si può essere irresponsabili a ogni età. Ma ci sono età in cui l’irresponsabilità è più uno stato d’essere, che una scelta. Un’età in cui la responsabilità ha altre maschere e viene scansata da altre priorità: la voglia di saltare le tappe, di ingurgitare pasticche sperando che agli occhi degli altri ci rendano “di più”. A sedici anni la vita sembra una cosa scontata, una ricchezza che non si è realmente capaci di considerare con il valore giusto.

La prima volta che ho messo piede in un club di Berlino avevo 18 anni. Una rarità, perché in quasi tutti i migliori locali non ti permettono di entrare se non hai 21 anni. Una logica incontestabile: la maggiore età ha un valore puramente legale e gli uomini all’ingresso, dopo anni e anni di esperienza, lo sanno. E i soldi che sei disposto a dare, le garanzie che credi di riuscire a trasmettere con una camicia chiusa fino all’ultimo bottone o uno sguardo più adulto non bastano. E posso confermarlo: l’evoluzione psicofisica che si vive dai 16 ai 22 (a volte anche più tardi) è intensa, ogni anno è un gradino in più, capace di fare la differenza. Un motivo in più per negare l’accesso ai minori, soprattutto in isole turistiche, che diventano facilmente isole dello sballo “legalizzato”.

Oggi, a 22, di anni ne sono passati quattro. Oggi, come allora, sono innamorata della vita notturna, amo la musica elettronica, sentire i bassi rimbombare nel cuore, vedere le persone entusiaste di un riff particolarmente riuscito. Se qualcuno mi invitasse a una notte in un qualsiasi club, sarei la prima ad accettare. Non ho mai fatto uso di droghe, pur condividendo il dancefloor con la crème di quel business.

Oggi, a solo quattro anni dalle mie prime esperienze, vedo il panorama del clubbing con altri occhi. E no, di anni non ne sono passati 10. Solo quattro. Quattro anni fondamentali, che quando si è giovani sono in grado di fare la differenza, di insegnare dei dettagli che prima non è facile interpretare.

E 16 anni non sono abbastanza per capire quello a cui una pasticca di ecstasy può portarti.

Cosa ci faceva un ragazzino al Cocoricò di sabato sera?

Le indagini si stanno attualmente orientando sulla questione dello spaccio e semmai si dovesse scoprire che la vendita è avvenuta all’interno del locale il club sarà probabilmente chiuso. Pochissime vie d’uscita se lo spacciatore era all’interno.

Il confronto con la movida berlinese sorge spontaneo. Berlino non è un’oasi, l’hype che si respira non è esente dalla piaga della droga. Forse solo dopo Amsterdam, diventa una meta ambita per chi ha voglia di sperimentare il meglio dello sballo. La droga è vissuta come un’attrazione quasi libera, è un atteggiamento che molti vantano per ostentare apertura mentale e sfida contro i rischi. La droga in tasca non ha nulla di sorprendente, anzi: banale è non averci a che fare.

Ma allora cosa cambia? Perché in quel tempio infernale che è il Berghain, fra i più famosi club techno del mondo, dove la droga la si respira mescolata al fumo delle sigarette, dove le anfetamine scorrono ridenti fra le bottiglie piene di “acqua magica” di un Club Mate, dove puoi ritrovarti faccia a faccia con un uomo nudo che saltella ripetutamente e meccanicamente avanti e indietro in una fetta di spazio, ignorando il tempo e lo spazio, completamente fatto, perché là dentro nessuno è morto di overdose?

Qualcuno dirà: non ancora. Ma in quel “non ancora”, c’è una questione di casualità? Fortuna? Forse. Ma non solo. In ogni club di Berlino, all’ingresso controllano i documenti, rimangono per lunghi secondi a fissarti negli occhi, fanno una scansione a raggi X, confrontano la foto, calcolano gli anni. Non importa se si dimostrano 15 o 50 anni, l’iter è in linea generale uguale per tutti. Senza la maggiore età non si entra, nella maggior parte dei posti nemmeno senza i 21 compiuti. La selezione è rigida e molto contestata, eppure è proprio il segreto per dimezzare statisticamente, pur su base empirica (molti si chiedono se davvero basti guardare una persona negli occhi per pochi istanti per capire se la sua presenza all’interno del locale possa portare problemi o no), la possibilità che qualcuno di scomodo o irresponsabile metta piede in un locale che, davanti alla morte di un solo suo frequentatore, rischia la chiusura definitiva.

Una selezione impersonale, che molti chiamano inutile, ma anche solo formalmente crea l’idea di un accesso non indiscriminato e in un qualche modo, forse difficile da capire, anche controllato. Una selezione dai toni sgradevoli, che dispiace a tanti, ma crea un’atmosfera elitaria, il concetto di un’accessibilità non scontata. Pur restando un business economico, non sono solo i soldi, ma la reputazione e in un qual modo anche la sicurezza al centro degli obiettivi di chi si fa carico della gestione dei club. Un tentativo di restare autentici e di dare priorità alla musica in sé.

La posta in gioco è altissima, il compromesso attraverso la selezione irrinunciabile: chi opta per l’età, chi per il modo di vestire, chi per nessun criterio, ma affidandosi al solo istinto e intuizione dei bodyguard che fanno il loro mestiere da parecchi anni e vantano un’esperienza tale, che un’occhiata è sufficiente per capire se è il caso o meno di accogliere uno o l’altro oltre la soglia.

Ho assistito a scene fortissime: ragazze più grandi di me, non più in grado di reggersi sui propri piedi, scortate in modo burbero all’uscita, con un solo muto messaggio. Se devi stare male, fallo fuori di qui. Niente di nuovo, niente di cui stupirsi: sono i club stessi che spesso forniscono la droga e le sostanze per sballarsi, ma non vogliono problemi. Un business di musica, a braccetto con quello della droga, un modo – talvolta scorretto – di accontentare gli affamati del mix techno-stupefacenti e la scarna etica del non arrivare a morirci.

Cieco, immorale e forse pericoloso, ma è un sistema che funziona quanto basta per non ritrovarsi davanti a ragazzini senza vita. Regole sotterranee che riescono a rispettare un equilibrio tollerabile, che resta accettabile finché non ci vanno di mezzo le vite. Templi del libero arbitrio dove, dai 21 anni in su, ognuno è libero di scegliere per se stesso e, a proprio discapito, decidere come rovinarsi la salute. Templi alle porte dei quali a sedici anni si rifiutano di farti entrare, perché la responsabilità di farlo supera la capacità del luogo stesso di proteggerti. Poche regole, forse al limite della legalità, ma assolutamente necessarie per non incappare in uno dei peggiori episodi che un club sia costretto ad affrontare.

Quella della vita notturna è una realtà difficile, che non cambierà, né rinuncerà alla droga o ai soldi. Sono mondi oscuri, che evadono dall’ordinario perché i frequentatori è spesso proprio questo che cercano. Non smetteremo di trovare gli stupefacenti, né gli irresponsabili. La speranza è quella di assistere a misure sempre più attente a proteggere coloro che, soprattutto per la loro età, non possono difendersi dai rischi. Famiglia, scuola, istituzioni e, soprattutto, club. Perché per divertirsi davvero bisogna prima conoscere il valore della vita.

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Photo: ©tanjila ahmed CC By SA 2.0

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