Chi va a vivere all’estero non ritorna (quasi) mai più

Quando un italiano va a vivere all’estero diffficilmente torna indietro. Se si è mosso perchè lo hanno mandato fuori, allora il discorso è diverso. Si parte e si rientra prendendo l’esperienza all’estero come qualcosa che rimarrà per sempre parte della propria vita, ma che già dall’approccio era stata a tempo determinato. Chi invece va all’estero non perché “inviato”, ma per una ragione che non è l’amore e non è il lavoro, non almeno uno che già ha, difficilmente si ritrova a fare il percorso contrario. Qualcuno c’è, ma molto spesso se ne pente e alla fine ripete lo stesso percorso e se non è più Berlino è Amburgo, se non è più New York è Londra o Barcellona, non certo Roma o Milano.

Qualità della vita superiore? Sicuramente. Sono in pochi quelli che per scelta si trasferiscono dove si dovrebbe vivere peggio che nella propria città d’origine. Di italiani andati a vivere ad Atene o El Cairo ce ne sono sempre meno. Mezzi pubblici puntuali e affidabili, traffico inesistente o quasi, maggiore meritocrazia quando si parla di lavoro e una sensazione generale, giusta o meno giusta, che all’estero siano meno corrotti che da noi, sono normalmente le ragioni fondamentali che ci muovono a trasferirci. Tutto giusto, ma non sempre all’estero poi si trova il posto dei propri sogni, non sempre, con una lingua che non è la nostra, riusciamo ad integrarci così bene da non avere mai nostalgia non solo dei nostri parenti, ma anche di ciò che chiamiamo casa, ovvero un insieme di atmosfere, suoni e colori a cui sentiamo nel profondo di appartenere. E allora perché sono pochi quelli che tornano?

Non è la ragione principale, ma è una ragione molto presente se si parla con tanti espatriati. Quale? Che all’estero abbiamo la possibilità di reinventare noi stessi. Ciò che eravamo rimane dentro di noi, ma può essere rimesso in discussione. E lo si mette in discussione. Muoversi all’estero significa domandarsi come e quanto siamo stati condizionati dalla società e da chi avevamo intorno. La pensiamo davvero così sul sesso? E sulle relazioni? E sui rapporti d’amicizia? Siamo amici di qualcuno perché ci siamo cresciuti assieme o perché davvero ha interessi e modi di pensare comuni ai nostri? Quanto interpretavamo lo stesso ruolo nel nostri gruppo di amici e quanto quel ruolo ormai ci stava stretto, ma avevamo un’inconscia paura di abbandonare? Quanti limiti ci eravamo posti da soli, limiti di viaggi, ambizioni, conoscenze, e quanti effettivamente ne abbiamo ora che nessuno ci giudica, nessuno ci controlla e gli unici a cui dobbiamo rendere conto siamo noi stessi?

L’estero, ancora di più che il trasferimento in un’altra città italiana, lavora sotto pelle. Queste domande non te le pone direttamente, nascono direttamente le risposte e solo dopo, a distanza, ci si rende conto che le si covava già da tempo. Seguire le proprie passioni, pensare -giustamente – che quel limite tra piacere e dovere non sempre dovrà essere così marcato, ma che anzi, può coincidere, sempre che si ha talento. Cercare nuovi amici non perchè compagni di scuola, ma perché dagli interessi comuni. Lanciarsi in avventure forse fallimentari che però si aveva il bisogno di vedere fallire prima di andare avanti, perchè sennò avanti non ci si sarebbe mai andati e si sarebbe continuato a vivere con il rimpianto di non aver fatto qualcosa che sentivamo dentro. Non è la Germania, non è l’Inghilterra, non sono gli Stati Uniti e non è né Berlino, né Parigi, né New York. Siamo noi stessi. Chi è forte si scopre un adulto diverso rispetto a quando era bambino rimanendo nella stessa città. Per altri, molti altri, partire è uno dei pochi modi per conoscere sé stessi. E vivere la propria vita senza castrarsi nessuna speranza.

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