Feldheim, la cittadina vicino Berlino che ha raggiunto l’indipendenza energetica

Feldheim è un paesino di 130 anime a sud-ovest di Berlino. Un villaggio silenzioso, in apparenza anonimo, come se ne trovano tanti nel Brandeburgo. Ma questa piccola comunità è salita agli onori della cronaca per aver realizzato, con circa 35 anni di anticipo, la cosiddetta Energiewende, la svolta energetica. Alcuni esperti, infatti, credono che la Germania possa rendersi pressoché indipendente dai combustibili fossili e dal nucleare entro il 2050. Un obiettivo estremamente ambizioso, che Feldheim ha sostanzialmente già raggiunto.

I suoi abitanti ottengono elettricità e riscaldamento per le loro abitazioni e per le fattorie esclusivamente da fonti rinnovabili. Feldheim rappresenta così il prototipo in miniatura di insediamento ecosostenibile, un mix perfetto di tradizione contadina e innovazione tecnologica, di attenzione al territorio locale e competenze di livello internazionale.

Petra Richter, sindaco del paese, è raggiante nel raccontare alla Deutsche Welle la storia di questo successo. Anche i suoi concittadini ne sono molto orgogliosi, trattandosi del frutto di vent’anni di cooperazione, lungimiranza e sacrifici personali, anche economici. Tutto cominciò nel 1995, quando l’imprenditore Michael Raschemann – poi diventato ingegnere e cofondatore della società Energiequelle –, intuendo le grandi potenzialità di una zona piana e ventilata, propose di installare quattro turbine eoliche sul terreno della cooperativa agricola locale.

Oggi le turbine sono diventate 47. La più recente e potente produce da sola 9 milioni di kilowattora di elettricità all’anno. Nel complesso, l’energia prodotta dal parco eolico di Fedheim è talmente abbondante che, una volta soddisfatto il fabbisogno del villaggio, può essere rivenduta sul mercato per il 99 per cento. Ma gli abitanti di Feldheim non si sono fermati qui e nel 2008 hanno investito anche in un impianto a biogas, che trasforma gli scarti dell’agroindustria e il letame in metano, fornendo l’energia necessaria a riscaldare le case del villaggio. Sempre nello stesso anno, con l’appoggio di Energiequelle, è stata creata su un ex sito militare sovietico una stazione fotovoltaica che produce energia sufficiente ad alimentare 600 abitazioni.

Ma, come recitava un vecchio spot, la potenza è nulla senza controllo. Così, sulla strada della piena indipendenza energetica, restava ancora un grosso ostacolo: la multinazionale E.ON. si rifiutava di vendere o affittare la sua rete elettrica al villaggio. Feldheim non si è di certo fatta scoraggiare e, grazie a fondi europei, prestiti di capitali e un contributo di 3.000 euro da parte dei singoli abitanti, ha messo in piedi una rete elettrica propria, attiva dal 2010. Da allora l’autarchia energetica e la decarbonizzazione possono dirsi ultimate, sebbene tecnicamente la rete autonoma spetti soltanto alle case di proprietà, mentre i pochi affittuari sono ancora allacciati a quella originaria. Ma si confida che una modifica della legge possa condurre al superamento del problema.

Che impatto ha avuto l’Energiewende sulla comunità di Feldheim? I cittadini sono entusiasti: non solo proteggono l’ambiente, ma, grazie all’indipendenza dai grandi cartelli e dalle fluttuazioni del mercato, possono controllare il prezzo dell’energia autoprodotta – più conveniente anche rispetto alle migliori offerte delle compagnie tedesche – e addirittura rivenderne una consistente percentuale. In tal modo l’investimento dei privati nella rete autonoma dovrebbe ammortizzarsi nel giro di pochissimi anni, per poi cominciare a fruttare.

Feldheim, inoltre, è diventata de facto una piccola attrazione turistica, con una media di 3.000 visitatori all’anno, interessati a comprendere e possibilmente copiare questo incredibile modello energetico. Si tengono corsi in varie lingue e i curiosi arrivano da tutto il mondo, persino dall’Australia e dal Giappone, specialmente dopo il disastro di Fukushima.

La svolta energetica, infine, ha creato almeno 35 posti di lavoro e Feldheim viaggia sui binari della piena occupazione: urgono nuovi tecnici per il parco solare ed eolico, nonché collaboratori per l’impianto a biogas e per un’industria siderurgica che ha aperto i battenti qui proprio per il basso costo dell’energia. La gente ha ripreso a ristrutturare le proprie case e a fare figli, circostanza quasi miracolosa in un villaggio semi-abbandonato della Germania a crescita zero. Un’autentica rinascita, insomma, con ricadute benefiche su molteplici aspetti economici e sociali della vita della piccola cittadina.

Feldheim non è l’unico paese in Germania a vantare una simile storia di successo. Tanti altri piccoli centri, ad esempio Dardesheim in Sachsen-Anhalt, si sono dotati di impianti eolici, fotovoltaici e a biogas. La provincia è dunque l’apripista dell’Energiewende: le reti decentralizzate per villaggi e paesi rurali sono una delle componenti decisive del modello tedesco, costituendo una dimensione privilegiata di sperimentazione e garantendo sicurezza, eco-sostenibilità e indipendenza dalle fonti energetiche estere. Secondo Peter Moser del deENet (Kompetenznetzwerk Dezentrale Energietechnologien), più di un quarto del territorio tedesco, per un totale di circa 20 milioni di abitanti, è in grado di coprire il suo fabbisogno energetico producendo autonomamente energie rinnovabili.

La svolta ecologista avviata dal governo tedesco negli anni ‘90 ha avuto indubbiamente alti costi di ricerca, e all’inizio sono stati commessi molti errori di valutazione. Ma oggi le rinnovabili costituiscono una scelta vincente, che conferisce alla Germania autorevolezza morale in fatto di ambiente. Dopo Fukushima il governo tedesco ha ribadito il suo impegno a uscire dal nucleare entro il 2022 e anche la dipendenza dalle fonti fossili è stata mitigata. Secondo Patrick Graichen di Agora, nel 1990 l’80 per cento dell’energia tedesca proveniva dal carbone e dal nucleare. Nel 2014 l’incidenza del carbone è scesa al 40 per cento, quella del nucleare al 15 per cento, mentre eolico, fotovoltaico e biogas sono balzati al 28 per cento. L’obiettivo di soddisfare almeno l’80 per cento del fabbisogno nazionale mediante le rinnovabili entro il 2050 non pare più irrealizzabile.

La leadership tedesca sulle questioni ambientali è stata riconfermata a giugno 2015 a Elmau, quando i paesi del G7 si sono confrontati su alcuni punti cruciali in vista della conferenza mondiale sul clima di Parigi. Durante il summit bavarese si è discusso di diminuzione delle emissioni di carbonio e della temperatura globale, di riduzione delle emissioni di gas serra dal 40 al 70 per cento entro il 2050, di decarbonizzazione e di energie rinnovabili. I leader G7 si sono dichiarati soddisfatti degli accordi raggiunti e il vertice è stato salutato dai media come un successo di Angela Merkel, applaudita persino da Greenpeace.

Certo, si tratta soltanto di una dichiarazione di intenti cui dovranno far seguito i fatti. E, anche su un piano meramente nazionale, la Cancelliera ha ancora numerosi nodi da sciogliere. Nessun paese al mondo, infatti, consuma tanta lignite quanto la Germania. La lignite è un carbon fossile particolarmente inquinante, la cui combustione rilascia enormi quantitativi di CO2 con effetti catastrofici sul clima. Durante l’Energy Security Summit, tenutosi a Berlino nel maggio 2015, l’attivista Kumi Naidoo, direttore esecutivo internazionale di Greenpeace, l’ha definita il «tallone d’Achille della Germania», invocando per essa un’imposta disincentivante e sanzioni per le industrie più obsolete, che naturalmente stanno opponendo forti resistenze. Non procedere in questa direzione, ha argomentato Naidoo, potrebbe minare l’autorevolezza della Merkel sulle tematiche ambientali e inficiare l’Energiewende tedesca, in particolar modo il piano di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra.

In generale, come spiega Marcel Fratzscher del DIW, Deutsches Institut für Entwicklungspolitik, molte aziende sono fortemente riluttanti a investire nelle rinnovabili o a rispettare standard eco-sostenibili. Gli scettici sulla transizione energetica fanno leva su difficoltà e dubbi che la ricerca effettivamente non ha ancora risolto, ma in modo del tutto strumentale a interessi corporativi. Le obiezioni più comuni alla decarbonizzazione o all’autosufficienza energetica solitamente suonano così: come si fa ad estendere il modello Feldheim alle metropoli e ai grandi centri? Come si rinuncia al nucleare e ai combustibili fossili, se il sole e il vento sono per definizione fonti energetiche precarie? Come si compenserebbero su un piano economico e occupazionale gli effetti delle sanzioni sulla lignite e della chiusura degli stabilimenti più inquinanti?

Si tratta chiaramente di difficoltà reali, ma non per questo insuperabili, se si ha il coraggio politico e la lungimiranza di investire nella transizione energetica. La ricerca ingegneristica, ad esempio, ha fatto passi da gigante per quanto riguarda la possibilità di immagazzinare l’energia eolica e fotovoltaica, ed esempi virtuosi come Feldheim dimostrano che le rinnovabili producono nuovi posti di lavoro. Naturalmente l’uscita dal carbone e dal nucleare non può essere immediata e indolore ma, se si vuole invertire la rotta e concedere respiro al nostro pianeta prima che sia troppo tardi, arrendersi aprioristicamente a queste obiezioni non sembra un’opzione percorribile. D’altronde nella storia delle idee, per ogni Repubblica platonica o Città del sole campanelliana, c’è sempre stato un Machiavelli che spegnesse gli entusiasmi, bollando i progetti innovativi come utopie. Ma il pessimismo, specie se di natura ideologica, non è una buona ragione per fermare il cambiamento necessario.

Foto di copertina: Ortseingang Feldheim Treuenbrietzen © Enzoklop – CC BY-SA 3.0

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