“Damasco non rivivrà più, è morta”. Io, italo-siriana, vi racconto la mia Siria e i suoi profughi a Berlino

Alia Foschi, ha 22 anni ed è arrivata da poco a Berlino per uno stage presso l’università Humboldt. A giugno scorso si è laureata all’università degli studi La Sapienza di Roma: mediazione culturale, curriculum in inglese e tedesco. Anche lei è un’italiana a Berlino e nelle ultime settimane ha deciso di prolungare la sua permanenza in città, dove proseguirà i suoi studi. La sua scelta? Islamistica. Alia è madrelingua italiana ma per metà il suo sangue è siriano: Afaf, sua madre, è originaria di Damasco e le ha trasmesso parte della cultura e della lingua mediorientale. Nel tempo libero fa l’interprete volontaria al centro di prima accoglienza di Spandau – Berlino dove si occupa di assistere i profughi nelle pratiche per la richiesta di asilo.

Com’è lavorare da interprete volontaria assieme ai rifugiati?

Non facile. Abbiamo a che fare con tantissime persone, molte delle quali arrivano da noi profondamente confuse riguardo le direttive sull’asilo e le pratiche da affrontare. Innanzitutto ci sono problemi puramente tecnici: i siriani non conoscono il concetto di “fila” e si accalcano su di noi in modo disordinato, ognuno pretende di essere ascoltato con maggiore urgenza e attenzione, sperando di ottenere più informazioni possibili. Se vai dieci minuti a fare una pausa, ti seguono e non smettono di chiederti come aiutarli per risolvere la loro situazione.

Quali sono le loro richieste più comuni?

Riceviamo tantissimi casi: anche se fanno parte dello stesso contesto, ogni uomo porta con sé una vicenda diversa, in quasi tutti i casi anche molto sofferta. Sono uomini che arrivano da soli e credono di poter far richiesta d’asilo per l’intera famiglia: le loro convinzioni sono spesso sbagliate e forvianti, quindi siamo costretti a “deluderli”. Non possiamo offrire l’asilo a chi non è fisicamente in Germania. La maggior parte di loro ci chiede aiuto per compilare le richieste, per andare negli ostelli e nelle pensioni a cui sono stati indirizzati. Il problema è che ci scambiano per funzionari dell’ambasciata e non comprendono i limiti del nostro ruolo: ci pregano di parlare e scrivere in modo “dolce”, “gentile”, affinché le richieste suonino più convincenti. Ma noi non abbiamo nessun potere: siamo solo mediatori.

Com’è l’organizzazione del campo?

Non sempre efficace e trasparente come può sembrare: i siriani di religione musulmana possono mangiare solo carne dissanguata. Un giorno c’è stata la distribuzione di cibo a base di carne ed è stato il caos, perché molti volontari non erano sicuri del tipo di carne che stavano offrendo. Molti piatti sono stati mandati indietro alle cucine, provocando lamentele fra i coordinatori. Ho saputo di un caso in cui un coordinatore consigliava i volontari di “mentire” sul tipo di carne servita, perché uno spreco del genere non sarebbe stato accettabile. Io credo che far fronte a un’emergenza profughi non significhi solo aiutare queste persone dal punto di vista dei bisogni primari, ma anche da quello religioso e culturale. Ci sono tantissime alternative alla carne, che risolverebbero il problema dei limiti alimentari legati alla loro confessione.

Cosa pensi del lavoro mediatico che sta facendo la Germania a proposito dei rifugiati?

Sicuramente c’è una fortissima pressione mediatica a favore dell’accoglienza e della solidarietà. Nessuno mette in discussione l’assoluta urgenza di dimostrare umanità e disponibilità ai profughi, ogni testata fa a gara per chi ha l’episodio di empatia più commovente. Questo è sicuramente un lavoro di sensibilizzazione giusto e che dovrebbe fare da esempio soprattutto all’Italia, che ancora non è riuscita a mettere da parte una voce come quella di Salvini. Eppure non è tutto oro quello che luccica: per esempio ancora molti tedeschi sono intolleranti e razzisti, come abbiamo visto negli episodi delle scorse settimane come quando due esponenti di estrema destra hanno urinato addosso a due bambini balcanici sulla S Bahn. Molti ostelli e molte pensioni a cui vengono indirizzati i profughi si rifiutano di accettarli e ospitarli, quindi sono costretti a dormire per strada. Dopo la notte tornano e ci chiedono come fare, allora noi li facciamo restare nel campo ancora qualche notte, ma la situazione spesso si affolla e diventa caotica.

Qual è il tuo rapporto con la Siria?

La Siria è la mia terra, a pari con l’Italia. Ho trascorso le vacanze a Damasco parecchie volte prima della guerra. Mi sento in tutto e per tutto parte della terra e della cultura ed è per questo che, da quando è scoppiata la guerra, sto soffrendo molto. E’ come se l’Italia fosse sotto attacco: tutti soffriremmo per la nostra terra.

Qual è la stata l’ultima volta che sei stata a Damasco?

Nel 2009. Nel 2010 volevo andare di nuovo in Siria per l’estate, poi ho pensato che quell’anno avrei potuto andare da qualche altre parte, che in fin dei conti ci sarei potuta andare l’anno dopo. Invece l’anno dopo è scoppiata la guerra e così sono sei anni che non vedo la mia città. Di questi sei anni, quattro di guerra in cui centinaia di migliaia di persone, fra cui moltissimi civili, sono morti, altrettanti sono scappati. Mi sono sempre pentita di non essere andata a Damasco quell’estate del 2010.

Che città è Damasco?

Damasco è molto grande, molto caotica. Era… molto grande e molto caotica. Per una donna è sempre difficile spostarsi da sola, la società è ancora molto maschilista. Non ci sono mezzi pubblici come a Berlino, nonostante la città sia molto più grande. Partono dei piccoli pullman, bisogna rincorrerli e cercare di accaparrarsi un posto. Non ci sono orari, per spostarsi da una parte all’altra della città bisogna uscire di casa un’ora prima. Ma le case sono bellissime: hanno giardini curati e niente tetti. Mia madre è cresciuta in una casa così.

Hai dei parenti in Siria? Come stanno?

Ho molti familiari rimasti, la situazione è difficilissima: passano giornate quasi intere senza elettricità, molte strade sono bloccate e c’è sempre la paura di qualche attacco. Il regime di Assad continua a resistere, i gruppi di ribelli anche e negli ultimi tempi è arrivato anche l’ISIS. Damasco, come Aleppo, un tempo erano gremite di persone: oggi sono vuote e desolate  Mia madre è andata in Siria nel 2012 per visitare la sua famiglia. E’ stato rischioso, ma per una donna è più facile. Ha viaggiato fino a Beirut e da lì un suo conoscente tassista l’ha accompagnata dall’aeroporto fino a Damasco. Normalmente basta un’ora, un’ora e mezza per percorrere la distanza. Loro ce ne hanno impiegate sei. Si rischia di non passare i controlli e che le autorità ti ritirino i documenti.

Qual è il tuo punto di vista sulla guerra in Siria?

È molto difficile esprimere un’opinione. Il regime di Assad ha sempre cercato e continua tuttora a cercare di bloccare la crescita economica della Siria. I ribelli non rappresentano tuttavia un gruppo sufficientemente compatto a sconfiggere davvero la resistenza del regime, sono divisi e non costituiscono una reale forza di opposizione. Fondamentalmente credo che il passato colonialista sia alla base del problema odierno siriano: abbiamo fatto salire dei dittatori, poi li abbiamo fatti cadere. Ne sono saliti degli altri, tutto per un unico scopo: il petrolio. E ora la situazione è degenerata, portando la guerra. In più si è aggiunta la minaccia dell’Isis, che sta assumendo il controllo di una parte sempre maggior del Paese e che sta facendo strage di civili, assieme ai combattenti delle altre fazioni.

Cosa dovrebbero fare gli stati occidentali per aiutare la Siria? Stanno facendo abbastanza?

C’è poca attenzione internazionale per la Siria. Alcuni Stati hanno inviato dei rinforzi per i ribelli, ma non c’è un reale interesse nel fermare la guerra. Dovremmo chiederci come mai sia l’America che Israele siano così “tranquille” nei confronti dell’avanzata dell’Isis. Se l’Isis fosse davvero una minaccia come ce la vogliono presentare gli Stati Uniti avrebbero potuto già fermarla. Il fatto che nessuno compia un’azione forte mi fa sospettare che all’interno di questo Isis ci possano essere inflitrazioni “occidentali”, che abbiano l’interesse a indebolire il regime di Assad e far sì che America e Israele ottengono più facilmente accesso alle risorse petrolifere del vicino Iraq.

E l’Europa?

L’Europa si sta concentrando molto sulla fase di migrazione, poco sul conflitto in sé. Anche da parte dell’Europa c’è scarso interesse per quello che è il conflitto in sé e per sé. C’è poca informazione, molti non sanno nemmeno che c’è tutt’ora una guerra in corso. Tutto è in mano ai governi, in un sistema nel quale il cittadino singolo non solo ha bassissima coscienza europea, ma in ogni caso ha poca voce in capitolo per quello che riguarda le decisioni a livello internazionale. Restiamo a guardare i conflitti evolversi, cercando di accogliere i profughi, ma di fatto siamo lontani dall’offrire soluzioni concrete affinché la radice del problema venga effettivamente risolta. Molti europei si fanno impressionare dalla distruzione dei resti archeologici, perché sanno che quelli sono parte della nostra storia, sono i resti dell’antica civiltà da cui proveniamo. Ma è molto “europacentrico”: so per certi che ai siriani non interessa molto dell’aspetto storico e archeologico: abbiamo perso centinaia di migliaia di esseri umani e la loro vita non ha un costo, non ha un prezzo. Eppure loro non fanno così notizia.

Gli altri paesi arabi come si stanno muovendo a favore dei siriani?

I Paesi Arabi sono poco solidali con la Siria. Sono razzisti e molto chiusi nella loro ricchezza di stati che controllano i giacimenti di petrolio. Non sono disposti ad accettare i profughi, sebbene siano paesi “fratelli”. E’ molto viva ancora la distinzione fra cittadini e beduini: i primi vengono identificati come categoria acculturata, mentre i secondi come categoria inferiore. Il punto è che ormai gli altri paesi arabi sono occidentalizzati: non hanno una vera e propria cultura araba, ma sono nati come continuum del concetto americano. Grandi palazzi, sfarzo e denaro. La religione stessa è praticata in modo relativo. Sono atolli di benessere tali e quali all’Occidente, non vogliono spesso avere nulla a che fare con gli altri Paesi.

Il tuo futuro è a Berlino?

Stiamo assistendo a un nuovo capitolo di storia, nel quale mi sento chiamare in causa. Le mie origini siriane, la mia competenza con la lingua araba rappresentano un nuovo punto di partenza, una nuova coscienza non solo individuale, ma anche comunitaria: la società tedesca avrà bisogno di sempre più mediatori arabi, che possano aiutare e collaborare a questa ondata migratoria dal Medio Oriente. Sento che a Berlino ho la possibilità di studiare finalmente quello che desiderio approfondire da tempo e realizzare non solo un sogno personale, ma anche una necessità sociale in linea con i tempi.

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