“Italia troppo corrotta”: anche Pirandello, più di ottant’anni fa, fuggì a Berlino

Anche Pirandello, ad un certo punto della sua vita, sentì il bisogno di scappare a Berlino

«Bisogna, bisogna andar via per qualche tempo dall’Italia, e non ritornarci se non in condizioni di non aver più bisogno di nessuno, cioè da padroni. Qui è un dilaniarsi continuo, in pubblico e in privato, perché nessuno arrivi a conseguire qualche cosa a cui tutti spudoratamente aspirano. La politica entra da per tutto. La diffamazione, la calunnia, l’intrigo sono le armi di cui tutti si servono. La vita in Italia s’è fatta irrespirabile. Fuori! fuori! lontano! lontano!» È con queste parole che nel 1928 Luigi Pirandello annuncia la decisione di lasciare l’Italia a Marta Abba, celebre attrice teatrale e cinematografica oltre che sua musa ispiratrice e amore platonico. Ma cosa provocò una tale insofferenza per il proprio paese, un senso di soffocamento così forte da farlo partire alla volta di Berlino?

L’impegno per il teatro

Il 1928 è un anno cardine per la vita di Pirandello, in quanto segna la fine del sogno che nel 1924 gli aveva fatto fondare la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, che debutta nel 1925 contando tra i suoi attori i nomi di Marta Abba, Ruggero Ruggeri e Lamberto Picasso. Pirandello si dedica al teatro a partire dagli anni Dieci, con un impegno che dura una vita e che modifica man mano ciò che va in scena, dal teatro in lingua siciliana e ancora realista a quello umoristico e relativista, fino a sviluppare proprio negli anni Venti il progetto del teatro nel teatro e dell’abbattimento della quarta parete. Per dare alla sua compagnia un palcoscenico degno di questo nome e permettere un corretto allestimento, Pirandello rileva i fondi del Palazzo Odescalchi a Roma, per farvi costruire l’omonimo teatro. Ma ben presto la Compagnia dovrà affrontare non solo problemi economici dovuti agli elevati costi di ristrutturazione, ma anche un’accoglienza di critica e pubblico che è ben lontana dal successo sperato. La conseguenza è dapprima l’inizio di una tournée europea (e non solo) che tiene in vita la compagnia ancora per alcuni anni, poi il ritorno a Roma con l’abbandono del Teatro Odescalchi per passare al Teatro Valle e al Teatro Argentina ed infine lo scioglimento della compagnia nell’agosto del 1928.

Le ragioni per lasciare l’Italia

Alla grande delusione di non vedere premiata la propria passione dalla critica e dal pubblico italiani, si aggiungono per Pirandello motivazioni anche politiche che lo spingono a lasciare il bel paese, che si intravedono anche nella citazione in apertura. L’atteggiamento dello scrittore verso il fascismo è sempre stato oggetto di studi controversi, che fanno immaginare certamente un’adesione (si iscrisse al PNF e firmò nel 1925 il Manifesto degli intellettuali fascisti), ma solcata da una certa ritrosia all’accettazione totale del regime e anche da interessi ben più personali che nazionali. Pirandello sperava probabilmente di offrire al Duce il grande teatro che unisce la nazione, ricevendo quindi quelle sovvenzioni statali necessarie a mantenere in vita la compagnia. L’autore ebbe sì dei riconoscimenti importanti durante il fascismo, dovuti soprattutto alla sua immagine, che divenne un motivo di vanto per l’Italia, ma la sua arte e i temi che toccava (relativismo, decadentismo, umorismo) non sembravano rispondere agli interessi del governo centrale, che preferiva riconoscersi nella penna di Gabriele D’Annunzio, cantore dell’arte fascista. Il fallimento della compagnia, un successo che tarda ad arrivare, lo scarso riconoscimento e appoggio nazionale, l’impressione che la politica arrivi dappertutto a chiedere di scendere a compromessi: sono queste le motivazioni che invitano Pirandello a partire verso la Germania, che egli aveva già abitato durante la stesura della sua tesi a Bonn nel 1890. La scelta ricade però questa volta su Berlino, la città del grande sogno culturale degli anni Venti, dove già molti apprendisti si erano recati alla ricerca di ispirazione e idee, rendendo l’ambiente intellettuale, e nello specifico teatrale, estremamente vitale.

La vita di Pirandello a Berlino

Pirandello si inserisce nella vita culturale della capitale tedesca, si reca a moltissimi spettacoli teatrali, è un assiduo frequentatore dei cabaret che punteggiavano la città, riceve consigli e ispirazioni per la sua stessa arte. Ma soprattutto, spera che in un clima tanto vivace, anche a costo di spingersi verso la cinematografia, possa venire fuori qualche buon affare che fornisca a lui il ritorno economico di cui ha bisogno per ricondurre l’esperimento teatrale in Italia e a Marta Abba il ritorno d’immagine che egli vorrebbe dare alla sua musa. A Berlino Pirandello apprezza soprattutto l’arte di Max Reinhardt, uno dei migliori registi di teatro del ‘900 che nella capitale conobbe un enorme successo, dirigendo soprattutto il Deutsches Theater, che ospitò produzioni di grandissima novità e sperimentazione. Reinhardt era al centro di quella grandissima concentrazione di attori, registi, scrittori, musicisti che anche Pirandello ebbe modo di conoscere e fu proprio lui a mettere in scena nel 1924 i “Sei personaggi in certa d’autore”. L’autore siciliano imparerà molto da lui in quei mesi di lavoro febbrile e lo ringrazierà di tutta l’ispirazione ricevuta dedicandogli la versione tedesca di “Questa sera si recita a soggetto”.

La fine dell’esperienza berlinese

Ma proprio quest’ultima produzione metterà la parola fine al soggiorno berlinese di Pirandello, già molto provato dall’abbandono di Marta nel febbraio del 1929. Non ha trovato i contatti per mettere a punto il grande affare, non è riuscito ad avere accesso al cinema e infine “Questa sera si recita a soggetto”, che molto deve all’esperienza berlinese, non dà nuovamente i risultati sperati. L’anteprima a Königsberg aveva ricevuto moltissimi consensi che avevano fatto crescere le speranze dell’autore, ma la prima al Lessing Theater nel maggio 1930 fu un grandissimo fallimento: la versione tedesca era stata curata da una pessima regia, incapace di rendere tutta la portata moderna e sperimentale dell’arte pirandelliana e dello spirito creativo del teatro nel teatro. Questo fu per Pirandello l’ultimo colpo che gli fece capire di non aver davvero trovato un’alternativa ai problemi che l’avevano spinto fuori dall’Italia, ed è con queste parole commenta l’abbandono della città, in un motivo simile a quello che l’aveva spinto due anni prima ad approdare qui: «Questa è Berlino. M’è parso jer sera d’essere in Italia. Non so più ormai dove me ne debba andare. Gli odii m’inseguono da per tutto. Forse è giusto così: che me ne vada dalla vita, così, cacciato dall’odio dei vili trionfanti, dall’incomprensione degli stupidi che son la maggioranza; e in punizione di tanti miei peccati che Tu, spirito veramente eletto, mi hai sempre rimproverati.» Il “volontario esilio” continuerà verso Parigi e poi negli Stati Uniti, ma lo scrittore non tarderà a tornare in Italia, finalmente protagonista di un grande successo internazionale come scrittore, novellista e drammaturgo che gli varrà anche nel 1934 il Premio Nobel per la Letteratura.

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