Facebook sotto inchiesta in Germania: «Non sanziona le istigazioni alla violenza»

Venerdì scorso Der Spiegel ha dato una notizia rapidamente rimbalzata dai media internazionali: la Procura di Monaco ha iscritto nel registro degli indagati Mark Zuckerberg fondatore e CEO di Facebook, e con lui la direttrice operativa della rete sociale americana, Sheryl Sandberg e il responsabile dei rapporti con i governi europei Richard Allan. L’indagine prende le mosse dalla denuncia di un avvocato di Würzburg, Chan-jo Jun, specializzato in reati in ambito informatico, che ha raccolto 438 casi accertati di contenuti debitamente segnalati ma non rimossi da Facebook, e che riguardano «istigazioni all’omicidio, minacce di violenza, negazioni dell’Olocausto e altri crimini».

I precedenti. Il provvedimento, però, non viene dal nulla. All’inizio del 2016 la Procura di Amburgo aveva avviato un’indagine per le medesime accuse, poi archiviata per mancata competenza territoriale. A fine febbraio, mentre era a Berlino in visita ufficiale e inaugurava una collaborazione con la Technische Universität sui programmi di intelligenza artificiale, Zuckerberg ribadiva che su Facebook l’odio non trovava spazio, e che la sua creatura lavorava a stretto contatto coi partner europei per combattere l’hate speech e a favore del counter speech.

Facebook sotto accusa. La notizia dell’indagine di Monaco giunge a un mese dalla decisione della corte di Amburgo di bloccare definitivamente il trasferimento dei dati da WhatsApp a Facebook e a una settimana da alcune esternazioni della cancelliera Angela Merkel, che sempre a Monaco aveva dichiarato che il cittadino ha diritto di conoscere il modo in cui i suoi dati vengono usati e analizzati da colossi mediatici come Facebook o Google. Il problema però non risiede tanto nella raccolta dati – Facebook ha introdotto da agosto 2016 un tool di ad preferences che permette di visualizzare i dati raccolti e modificarli – quanto nell’uso che viene fatto degli stessi e negli algoritmi che stabiliscono la priorità e l’indicizzazione delle informazioni.

Gli algoritmi e la realtà distorta. I criteri che regolano questi algoritmi sono tenuti segretissimi. Il pericolo, secondo Angela Merkel, riguarda la stessa vita democratica, a causa del fenomeno noto come Filter Bubbles o Echo Chambers: la maggior parte dei cittadini, infatti, ormai si informa sui social media e cade così vittima di quella «distorsione della percezione» – è la stessa cancelliera a definirla così – per cui le notizie arrivano già filtrate dalle lenti di un mondo che è costruito a nostra immagine e somiglianza. Finiamo in questo modo per vivere in una bolla filtrata dalle opinioni nostre e dei nostri contatti, dunque in qualche modo isolata e non necessariamente aderente ai fatti. Secondo molti osservatori, questo è all’origine della polarizzazione delle opinioni pubbliche su posizioni estreme, che finiscono per confrontarsi solo sotto forma di antagonismo irriducibile – il cosiddetto hate speech – con gravi conseguenze per la vita democratica del Paese. La Germania è indubbiamente uno degli Stati che più teme una deriva populistica.

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Lo storico accordo YouTube-Gema. Infine è sempre di pochi giorni fa un’altra notizia che riguarda il rapporto tra i cittadini tedeschi e il mondo digitale: l’accordo tra la GEMA, l’equivalente tedesca della SIAE, e Youtube, che permette agli utenti tedeschi di tornare a vedere oltre il 60% dei video prima bloccati per il mancato accordo sulla tutela del diritto d’autore. Era una misura in effetti ormai anacronistica, oltre che penosa per l’utente, poiché non tutelava gli autori ma, al contrario, in un’epoca in cui la promozione avviene in rete in misura maggiore che sui canali tradizionali, rappresentava semmai un’ostacolo alla diffusione in rete.

Germania all’avanguardia. La Germania compie così un balzo da una posizione di retroguardia a una di avanguardia: non c’è dubbio che le svolte intraprese in questi giorni vadano incontro alle idee di organizzazioni radicali che mettono in guardia per un verso contro la raccolta e l’uso dei dati personali in rete, e dall’altra sull’impatto che questa epoca della comunicazione ha sulla vita democratica, come ad esempio la Electronic Frontier Foundation o la tedesca Netzpolitik. Si potrà certamente obiettare che ciò rappresenta una pesante ingerenza di un Paese di tradizione statalista sulla vita e lo sviluppo della rete, ma ciò si iscrive in un momento storico in cui in Europa si comincia a discutere e a legiferare contro il liberismo sfrenato permesso dalle nuove tecnologie. Ultimamente, ad esempio, una corte di Londra si è pronunciata a favore dei lavoratori di UBER che chiedevano diritti fondamentali,  respingendo la pretesa dell’azienda di essere considerata un semplice aggregatore senza responsabilità. Rimane ora da stabilire se vivere in un ambiente digitale in cui i propri comportamenti possono essere analizzati e predetti, e quindi indirizzati, non sia in effetti una forma di dominio altrettanto stringente e, in ultima analisi, tanto più pervasiva quanto più invisibile.

Foto di copertina © Flickr – Brian Solis

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