L’italiano turista a Berlino lo riconosci subito

Non è solo un fatto di voce, certe volte lo vedi da lontano, non lo hai sentito, eppure sei sicuro che sia un tuo connazionale.

Spesso non c’è un particolare preciso, è raro – ma non impossibile – incrociare italiani che vadano in giro con il cappellino di una squadra di calcio o avvolti nel tricolore, ma è più una sensazione di casa che si avverte da lontano, lo stesso tipo di presagio di quando pensi che il cellulare ti stia per squillare e poi ti squilla davvero.

Altre volte però, e non è un luogo comune dirlo, sono proprio i dettagli che te lo fanno riconoscere.

Giriamo in gruppi, è una nostra prerogativa. Come un’unica grande squadra di giocatori professionisti di poker riusciamo in tutte le migliori combinazioni. Abbiamo la carovana caciarona eterogenea, estratto in piccolo di compagni di classe che si sono voluti regalare un weekend a Berlino dopo che ad Amsterdam si sono sfondati già una volta. Abbiamo il tris di amici tutti maschi che pensano che nessuno li capisca quando siedono sul vagone della  metropolitana e fissano la bionda in leggings seduta davanti a loro commentandola ad alta voce senza rendersi conto che a) a Berlino ormai vivono migliaia di italiani b) che i tedeschi amano imparare lingue straniere, tra cui anche l’italiano (una volta che sei nato parlando tedesco, qualsiasi altro idioma è una passeggiata) e c) che quella bionda è di Padova, sta capendo tutto e pur di non farsi riconoscere come italiana è pronta ad improvvisare un ungherese maccheronico al cellulare se proprio in quel momento la chiamasse la mamma al cellulare. Abbiamo la coppia o la doppia coppia di fidanzatini italiani, con tanto di guida verde Touring Club nelle mani di uno dei due ragazzi, mappa della metropolitana in quelle della ragazza e continui dubbi sul se sia questa la fermata giusta. Abbiamo la famiglia italiana classica, lui, lei e uno o due figli, dove sono proprio i figli i più svegli a capire come funzionino i mezzi, dove si debba andare, quanto pagare e quale sia un ristorante turistico e quale no. Abbiamo il poker di liberi professionisti sui quaranta e passa che hanno spacciato il viaggio a Berlino alle mogli come un convegno di vitale importanza per la propria crescita professionale e che forse poi il convegno ce l’hanno pure, ma il weekend – e non solo –  finiscono per passarlo tutto all’Artemis e tutto ciò che viene prima e tutto ciò che viene dopo sono commenti  o sulle aspettative o sulle proprie perfomance. Abbiamo il gruppetto di ragazzine ventenni o giù di lì che arrivano all’aeroporto di partenza già truccate e vestite in maniera anticonvenzionale, loro pensano che sia “alla berlinese” e che se i loro coetanei compaesani le hanno prese in giro quando le hanno viste uscire di casa seguite da cori del tipo “a ridicole!”, “guardate che per Halloween è troppo presto”, e così via, è solo perché i loro coetanei compaesani sono dei provincialotti. Abbiamo le scolaresche con prof disperate quando capiscono che in metro non ci sono tornelli e così, contare quanti alunni stiano effettivamente aspettando davanti al binario è sempre più difficile. E, per finire, abbiamo  gli amici venuti finalmente a trovare l’amico che si è trasferito da qualche mese a Berlino ed è vero che si sta facendo una nuova compagnia di gente con cui vivere “questa pazza città”, ma in fondo anche lui non vedeva l’ora che i vecchi amici lo raggiungessero perché in fondo certe esperienze ci piace farle con le persone a cui si vuole più bene. A prescindere dalla formazione del “tuo” gruppo, una cosa non manca mai: il fare continuamente commenti positivi sull’efficienza tedesca, sui mezzi, su quanto sarebbe facile esportare questo o quel modello di comportamento e funzionalità in Italia, ma purtroppo, mannaggia, siamo italiani e certe cose proprio non le vogliamo imparare né a fare né a copiare. Giriamo per Berlino guardandola solo a metà, con un occhio ne gustiamo i monumenti, l’organizzazione, le cicatrici della storia, con l’altro la mettiamo in continuo paragone con la nostra città o cittadina di origine.

Ci convinciamo subito che il paragone sia sempre perdente per l’Italia, però poi, quando arriva l’ora di cena, ecco che ci tiriamo su e dopo aver a lungo cercato un ristorante che ci convinca finiamo con il sederci in un MacDonald, un chioschetto di wurstelo, se proprio siamo fissati, in un ristorante italiano, e mentre diamo l’ultimo boccone alla pietanza, chiudiamo il pasto con un naturale “però, come si mangia in Italia qui se lo sognano”. Sulla metro non sempre è immediato a tutti che che per aprire le porte bisogna spingere il pulsante, è successo che alcuni turisti abbiano saltato la propria fermata battendo i pugni sulle vetrate, apriti, apriti, apriti!,  mentre un’altra nostra prerogativa è il parlare ad alta voce sia tra di noi che al cellulare, quasi che per coprire la distanza che ci separa da chi ci ha appena chiamato in Italia si debba proporzionalmente aumentare il volume della nostra chiacchierata. Ci piace poi  “cambiare le cose” e abbiamo due atteggiamenti opposti quando ci rendiamo conto che in Germania i piatti, il caffè, il biglietto del bus o qualsiasi altra cosa, vengono fatti solo secondo le regole e le regole sono solo quelle scritte da qualche parte, non altre a parole, volatili, su cui si può discutere, limare o contrattare e non c’è scappatoia o “prova di convincimento”, nonostante (ed è vero) non sempre tutto ciò che sia tedesco è conseguentemente intelligente ed un po’ di elasticità, anche da parte loro, sarebbe sia carina che più funzionale. Ebbene davanti a questa rigidità c’è chi tra di noi si ostina a volerci provare lo stesso e chi invece diventa più tedesco dei tedeschi, automa che con una dedizione quasi totale si permette pure di riprendere chi nel resto del proprio gruppo di amici turisti non segue le regole bacchettandolo come “il solito italiano”. E anche se in Italia non visitiamo una mostra d’arte da due anni e mezzo, ecco che appena usciamo fuori dai confini non possiamo permetterci di perdere questo o quel museo,quasi che i musei siano un obbligo di visita e se non ci sei stato è come se non fossi mai partito.

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D’inverno il nostro look, soprattutto tra gli uomini,  è piuttosto semplice: giacca (North Face, Moncler o Woolrich), maglione, camicia, canottiera, jeans, monboot o comunque dopo-scii anche se è metà ottobre, cappello, occhiali da sole e il trittico, guanti, cappello di lana tirato giù fino agli occhiali da sole e sciarpa avvolgente fino a sotto il naso, tanto che alla fine per comunicare si fanno versi gutturali alla Darth Vader. Il look facciale è quello del rapinatore, a mala pena si vede di che colore sia la pelle sotto tutti quegli strati di lana e acrilico. Ogni tanto si vede anche gente con il colbacco, sì, alla Totò e Peppino, e non è che ci sia niente di male, può fare davvero freddo a Berlino, ma il problema è che anche quando tanto freddo non c’è, noi italiani non ci spogliamo mai, preferiamo morire di caldo pur di non farci raggiungere dalla “terribile temperatura berlinese”, qualsiasi essa sia. I nostri occhiali-fanali da sole, modelli dalle lenti enormi che qualche tedesco – a mio avviso a ragione- vorrebbe fermare alla dogana quando si tratta diquel modello della Carrera ad onda, con le stanghette finisssime, diventano parte del nostro corpo, tatuaggi indelebili sui nostri occhi da cui ci costringiamo a guardare la città nonostante la città d’inverno abbia mezz’ora di luce al giorno e tutto il resto delle ore diurne siano grigie. Ma caspita gli occhiali da sole li ho portati e li voglio utilizzare!Quelli che si pensano i più cool e probabilmente lo sono all’interno di chi la pensa come loro, sono i tanti, ragazzi o ragazze, che come giacca a vento optano per i piumini lucidi metallizzati. Non è chiaro dove sia nata la moda, alcuni dicono a Roma, altri a Napoli, ma è sicuro che da lontano molti di questi capi sembrino dei sacconi della spazzatura e chi ci sta dentro qualcuno che dovrebbe essere aiutato presto ad essere tirato fuori.

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I nostalgici degli anni ’90 vengono a Berlino ritirando fuori i vecchi zaini del liceo, gli immancabili Invicta che da piccolo pensavi che ce l’avessero in tutto il mondo, ma che con il tempo ti sei reso conto che ce l’hanno solo gli italiani. I più organizzati, o forse quelli che non gliene frega nulla del look, tengono tutti i loro averi nel marsupio, mappe, guida cittadina, biglietti e tutto il resto. E’ vero, in Italia siamo campioni della disorganizzazione, ma siamo anche dei grandi viaggiatori (ci battono giusto i tedeschi) e a forza di girare il mondo, sappiamo essere prudenti e alcune regole le abbiamo imparate.  Non siamo né i peggio, né i meglio. Ogni tanto se incrociamo altri italiani facciamo pure finta di parlare un’atra lingua quasi vergognandoci del fatto di essere così tanti o così poco originali nella scelta delle mete, siamo ipercritici verso gli altri senza mai pensare che gli altri siamo anche noi e che se è pur vero che apparentemente quando viaggiamo all’estero non siamo i più belli da guardare o con cui avere a che fare, è pur vero che abbiamo grandi capacità di adattamento e prova ne sono i tanti nostri connazionali trasferitisi all’estero, berlino come altrove, integrati alla perfezione. Non solo. Se parliamo per luoghi comuni, beh, dietro quell’immagine di gente disorientata che parla a voce alta, che ci mette un po’ a capire le indicazioni perché non parla né inglese né tedesco (ma smettiamola di pensare che in Francia o Spagna il livello medio di inglese sia più alto), spesso si nasconde anche tanta umanità. E, almeno in questo, da italiani possiamo anche essere soddisfatti di noi stessi.

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Photo: © Georgie Pauwels CC BY SA 2.0