Quinzaine di Cannes, Two Lovers and a Bear di Nguyen convince solo a metà

Two Lovers and a Bear di Kim Nguyen è un film strano, di quelli che fino all’ultimo non sai bene che piega stiano prendendo o quale solco abbiano deciso di tracciare ma che, nonostante qualche problema di chiarezza di intenti, ti lasciano col sorriso della soddisfazione di chi ci ha almeno provato.

La storia. Quinto film per Kim Nguyen, regista canadese di origini vietnamite, noto per War Witch (Rebelle), presentato nel 2012 al Festival di Berlino. Two Lovers and a Bear racconta di due innamorati messi alla prova dalle scelte di vita che potrebbero dividerli, in un ambientazione che già di per sé è una prova di vita. Il film si svolge infatti nel “Grande Nord” della regione artica del Nunavut canadese, a due passi dal Polo Nord. Le distese glaciali sono molto suggestive, ma la vita quotidiana è prova dello spirito di adattamento dell’essere umano. Anche seppellire i corpi dei morti non è cosa semplice in questi luoghi in cui si raggiungono i -50°. Non sembra però adattarsi altrettanto bene Roman (Dane Dehaan) alla notizia della partenza di Lucy (Tatiana Maslany) per finire il ciclo di studi “al sud”. Nguyen inizialmente ci racconta poco della coppia, presentandola senza evidenziarne per forza un legame profondo, e anzi mettendo in evidenza alcuni fantasmi nella vita di Lucy che sembrano pesare nella loro relazione. Nella vita di Roman invece a pesare è il rapporto particolare che lui ha con un orso polare, una sorta di tramite diretto con il divino. Un divino a cui piace l’alcool. Un dio assolutamente non perfetto, come ne è testimonianza anche il finale del film. La coppia si spingerà infatti per qualche giorno fuori dei perimetri della cittadina, ancora più a nord, ancora più dispersi nelle distese di ghiaccio e neve ed esposti alle intemperie del luogo oltre che della loro anima.

Girato in condizioni estreme. Ispiratosi ad un racconto di Murakami e ad una statua di un orso polare vista nei pressi di Amsterdam, Kim Nguyen ha raccontato al pubblico della Quinzaine che le difficoltà maggiori nel girare il film in una simile ambientazione sono state sperimentate dai cameramen (il cambio delle lenti che richiede d’esser fatto a mani nude, spesso portava la pelle delle mani a rimanere attaccata alle lenti stesse). Per gli attori invece, seppur in qualche circostanza ad un passo dal congelamento, dover recitare a simili temperature ha sicuramente facilitato l’interpretazione più che dover fingere il freddo in uno studio ben riscaldato. Lavorare poi con un orso in carne e ossa è stata a detta di Dane Dehaan un vero dono.

Un film con più anime. Nel complesso Two lovers and a bear è sì un storia che racconta di amore, ma il regista sembra essersi divertito nel rendere i fantasmi interiori dei protagonisti vivi a tal punto da creare delle scene di tensione e delle situazioni che sembrano a volte quasi preludere ad una svolta horror, che rimane però solo un preludio, senza mai andare oltre (per qualcuno questo potrebbe essere un po’ deludente). Ciò che davvero importa all’occhio del regista è invece il cammino che i due protagonisti decidono di intraprendere alla fine di un percorso che dura il tempo del film, al di là del fatto che questo percorso possa poi essere smentito dalle circostanze imposte dalla vita reale. Un finale decisamente agrodolce – forse però la parte migliore – per un film che sembra non sempre centrare cosa voglia essere, con picchi di leggerezza, quasi al limite del grottesco, che si innestano nel racconto del tormento interiore di cui l’ambiente esterno, laddove il freddo è così freddo che arriva a bruciare, è anche e soprattutto metafora oltre che pretesto.

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Foto di copertina © YouTube