L’assurda cronaca di come ho ottenuto il sussidio di disoccupazione (Hartz IV) in Germania

di Letizia Perazzini*

Novembre 2013. Inizia tutto l’anno scorso, al ritorno da un viaggio in Marocco. Rientro a Berlino, ma il mio lavoro non c’è più. Come tanti altri connazionali in città ero a Berlino in cerca di un lavoro e nel frattempo mi sostenevo con un minijob in un bel locale sulla Bergmannstrasse. Ma gli affari non stavano andando molto bene e così ecco il licenziamento. Avevo lavorato lì da quando ero arrivata a Berlino, circa un anno e mezzo prima. Sempre con contratto, in regola e con ferie pagate. Il lavoro aiutava a sostenere la mia ricerca di un “lavoro vero” e mi divertiva.

L’idea di passare un inverno a Berlino senza lavorare non era entusiasmante e così inizio a cercare un altro lavoretto. Chiedo ad amici, rispondo ad annunci, ma l’inverno non è proprio una stagione ricca di opportunità, soprattutto se si parla di ristorazione. Un’amica, che vive a Berlino da 15 anni, mi dice che potrei chiedere la disoccupazione: non ci avevo mai pensato e infatti non mi ero ancora “registata”, né al Job Center né all’Arbeitsamt. Decido che è arrivato il momento giusto per tuffarmi nel mare magnum della burocrazia tedesca – cosa che mi preoccupava non poco – e inizio la trafila.

Primi passi

Mi devo registrare come essere umano disoccupato.

Vado all’Arbeitsamt, coda, aspetto, arriva il mio turno, ma devo andare al Job Center (perché avevo un minijob).

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Vado, coda, aspetto, arriva il mio turno e mi consegnano un plico di documenti da compilare, parlo con un consulente. Mi organizzano le due settimane successive: un esame per testare il livello di tedesco, un corso che aiuta a compilare i formulari per la richiesta di disoccupazione, a preparare il curriculum in tedesco (con tutti i crismi, foto german style inclusa) e supporta nella ricerca di un corso di formazione che possa aiutare a ritrovare un lavoro adeguato alle tue capacità, inclinazioni, motivazioni, aspirazioni. E’ un lavoro fulltime e pagano anche i biglietti per il trasporto da casa tua alla sede del corso. “Wunderbar”, dico, è l’occasione per iniziare un processo di integrazione che ho sempre rimandato.

Due settimane dopo.

Test di tedesco fatto (B2+). Penso di aver trovato un possibile percorso professionale alternativo: ho tanti anni di esperienza nell’ambito del marketing turistico, ma potrebbe essere divertente diventare sommelier e così cerco, assieme al mio tutor (un consulente assegnato ad ogni disoccupato che lo supporta nella ricerca di un nuovo percorso professionale), corsi di formazione adatti.

Domanda compilata, tutto pronto, formulari, dichiarazioni, estratti conto bancari, ricevute, curriculum … un kiletto di carta più o meno (tutta riciclata).

Il mio bel materiale è compilato, completo, lo consegno e aspetto.

10 giorni dopo.

Inizio di dicembre: non ho diritto alla disoccupazione, niente mitico Hartz 4 per me.

Anche in Inghilterra mi era successo la stessa cosa. Non è destino.

Ci rimango molto male.

Sono un po’ una testona e voglio capire bene. Perché Mamma Germania non mi accoglie tra le sue grandi braccia? E’ proprio vero allora che la televisione italiana dice una sacco di fregnacce: non è facile ottenere il sussidio, non è facile fare del “turismo sociale”. Mi informo meglio e mi consigliano di chiedere il parere di un avvocato (gratis) e fare ricorso (gratis). Incontro la mia avvocatessa (che si occupa principalmente di rifugiati e casi legati all’immigrazione di popoli che scappano dalla guerra, fame e povertà) e mi dice che ci sono le basi per un appello e che si può vincere.

Nel frattempo sto valutando l’idea di rientrare in Italia dove c’è qualcuno che mi aspetta.

Il rifiuto del Job Center della mia richiesta di sussidio si basa sul fatto che il mio contratto era a tempo determinato (befriestet) e che quindi io sapevo che ad un certo punto sarebbe terminato: sono dunque io responsabile del mio stato di disoccupazione. Vero. Ma è vero anche però che ne ho avuti diversi di contratti befriestet, rinnovati, sempre dallo stesso datore di lavoro e dunque è come se fosse un contratto a tempo indeterminato (mi dice l’avvocato). Su queste basi si farà ricorso.

Ci sono poi tante altre argomentazioni, definizioni e consuetudini (legge europea vs legge tedesca, arbeitsucher vs arbeitsnehmer, jobcenter vs jobcenter), ma la questione fondamentale è il BE(friestet) or not to BE(friestet).

L’avvocato è molto disponibile, fa il ricorso e mi dice che dobbiamo solo aspettare.

Fine marzo.

Torno in Italia ancora senza una risposta sul mio ricorso, il mio caso non è urgente perché ho un po’ di soldi in banca che mi permettono di sopravvivere.

Un anno dopo.

Ad un anno esatto da quando ho presentato la mia domanda eccomi ancora a Berlino a presenziare a l’udienza in tribunale con il rappresentante del jobcenter, il mio avvocato e un giudice che dovrà decidere il da farsi.

La sua opinione è chiara: il contratto è a tutti gli effetti un contratto a tempo indeterminato e si pronuncia favorevole all’assegnazione del sussidio per il periodo di tempo che sono rimasta in Germania, ma chiede un ulteriore pezzo di carta e si dà una settimana di tempo per confermare la sua decisione. Sono contenta, a prescindere dai soldi che riceverò se mai li riceverò.

Lezione.

Ho smesso da tempo di avere delle opinioni che non si basino quasi esclusivamente su esperienze vissute direttamente sulla mia pelle. Sono una cocciuta ed imparo solo facendo o sbagliando. Ecco qui cosa ho imparato da questa avventura berlinese e i consigli che mi sento di condividere:

– il welfare è sinonimo di convivenza civile, senza uno stato sociale vero ed accessibile non si può parlare di uguaglianza.

– l’apparato burocratico tedesco è mastodontico e si autoalimenta, ma funziona.

– la complessità burocratica della macchina amministrativa tedesca oltre a rendere le procedure “uguali per tutti” vuole anche scoraggiare chi non ha l’urgenza e/o non è particolarmente motivato. Giusto o sbagliato che sia.

– la mera ricerca del lavoro non è una motivazione sufficiente per andare via. Le difficoltà da affrontare sono tante e per superarle ci vuole forza, tenacia e determinazione: scegliete un paese perché lì potete fare qualcosa di unico (per voi) e non semplicemente per andare via dall’Italia!

– se volete venire in Germania (anche a Berlino) dovete voler imparare il tedesco!

– fate tutte le registrazioni e i giri burocratici che dovete fare appena arrivati in Germania: ne sarete ripagati!

– cercate l’integrazione ogni momento della vostra vita: è fondamentale per godere a pieno dei diritti e delle opportunità di crescita personale e professionale che una città miltikulti come Berlino ha da offrire.

PS:

Il giudice che ha presieduto la mia udienza era un travestito.

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Berlin du bist wunderbar!

Photo © Taz