Il buttafuori del Berghain: “Dopo vent’anni è come se avessi le antenne, capisco subito chi disturba e chi invece va bene”

Tutti i techno lovers o i 24 Hour (facciamo pure 48) Party People a Berlino conoscono il suo volto segnato da tatuaggi e piercing. Dopo ore interminabili di coda, con lui basta un attimo per scoprire se passerai i prossimi due giorni al Berghain o altrove. Un rapido sguardo ed ecco che Sven Marquadt, lo storico buttafuori, scuote il capo in senso di assenso o dissenso. “Dopo vent’anni da buttafuori è come se avessi le antenne, capisco chi disturba e chi invece crea un buon mix per la notte”, riporta Sven nel libro autobiografico Die Nacht ist Leben (La notta è vita), scritto a quattro mani con la giornalista Judka Strittmatter.

Quando nel 1989 il muro è stato buttato giù, Berlino ha dovuto prepararsi a un cambiamento non proprio indolore. La techno imperava e Sven Marquardt si lasciava travolgere da questo tumulto di energia (“Ne voglio ancora: il prossimo party, la prossima sbronza”), poi nel 1994 ha iniziato a lavorare come buttafuori. Un intuito, quello del Punk della DDR cresciuto a Prenzlauer Berg, affinato dall’esperienza ma, probabilmente, anche dall’occhio fotografico.“Siamo Punk, siamo gay, non abbiamo nessun lavoro regolare”. Die Nacht ist Leben è uno scorcio personale nella scena underground e punk agli inizi della DDR.“Volevo raccontare la storia di Berlino. Credo che la mia vita sia un pezzo della Berlino di allora e di adesso, ad ogni modo un pezzo molto piccolo”.

Il viaggio nel tempo ci porta a osservare da vicino un giovane e ribelle punk in giro nella Berlino Est in cerca di amore. Nel 1962, a un anno dalla costruzione del muro, i genitori di Sven si separano. Nella ribellione affoga il bisogno d’amore e di appartenenza, e nella scena gay trova finalmente un rifugio. “Gli uomini mi danno un senso di forza, perché mi vogliono”.

Dopo le superiori, il guardiano del tempio della techno conclude il suo apprendistato da fotografo e cameraman presso la televisione della DDR nel quartiere di Adlershof. Negli anni ’80 l’incontro con il figlio della fotografa Helga Paris lo trascina nella scena artistica e bohémien di Prenzlauer Berg agganciandolo per sempre alla fotografia. E’ con l’aiuto professionale della Paris, fotografa della quotidianità ai tempi della DDR, che il malinconico Sven definisce poi il proprio sguardo. I corpi immortalati si stagliano su ambienti spaziosi o muri in rovina in una posa enigmatica, talvolta giocosa ma non per questo meno misteriosa, e disposti a diventare punto di partenza e approdo di una ricerca all’interno del gender. Spesso i suoi ritratti di dj e buttafuori in pose tutt’altro che rassicuranti affollano i muri altrimenti spogli – e rigorosamente privi di specchi – del Berghain. Alla fine degli ’80 risalgono le prime mostre fotografiche e l’inizio della collaborazione con la rivista di moda SIBYLLE. Dal 2000 lavora a progetti fotografici per Levi’s, Hugo Boss e il Berghain, nel 2009 inizia la serie “Angesicht” con la grandiosa Camilla Erblich nei locali del Berghain “La Halle del Berghain è un po’ il mio atelier, da anni il set dei miei scatti. La sua calma e austerità, il suo fascino industriale e la sua imperfezione sono lo sfondo perfetto per le mie foto. Non dimenticherò mai la prima in cui vi ho messo piede undici anni fa. Ho avuto come l’impressione di essere già stato in quel luogo, forse nei miei sogni. Mi ha fatto pensare subito a Metropolis di Fritz Lang, era un posto solitario e malinconico, semplicemente meraviglioso”. Poi si continua con “zukünftig vergangen“ e “Heiland“, apparse nel 2010 – 2011.

La biografia fotografica e aneddotica di Sven affronta anche l’annosa questione della door policy del Berghain, razzista e oscura per alcuni, fisiologica al mantenimento di una certa atmosfera (basata forse su impressioni troppo fugaci?) per altri, sebbene non sveli particolari trucchi vincenti: “Va bene tutto, abiti di pelle nera e di lino bianco, jeans o gonne scozzesi, ragazze stile Pamela Anderson e avvocati in doppiopetto. L’essenziale è che il mix funzioni”. Quali siano i criteri di selezione rimarrà per sempre un mistero, certo è che il miscuglio socio-antropologico funziona (quasi) sempre.

Forse chi è abituato a confrontarsi nervosamente con lo sguardo giudicante e sordo di Sven fatica a lasciarsi affascinare da quanto la sua voce può raccontare di Berlino, e probabilmente non ha nessuna voglia di leggere la capitale tedesca attraverso le sue parole. Personalmente sono stata incuriosita dalla Berlino vista con i suoi occhi e attraverso i suoi lavori, e sorpresa dalla scoperta di retroscena melanconici nel racconto di una figura senza dubbio leggendaria. Abschied – addio è una parola d’uso comune nel vocabolario di Sven, con cui l’artista-guardiano mantiene tuttavia un rapporto ambivalente. “Da un lato mi piace, perché ha a che fare con la malinconia, e io amo la malinconia. Dall’altro lato mi fa male, perché comunque significa allontanarsi. Perché a volte dobbiamo dividerci da una situazione o da una persona che che ci sta a cuore. A volte alcune situazioni mi rendono cinico, perché dentro di me lottano il bello e il brutto degli addii. Quando mi trovo di fronte a un addio imminente cerco di ripensare alle tre parole latine impresse sulla porta del mio tatuatore preferito di Mitte: Principio respice finem – Al principio guarda alla fine”.

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