Diario di una notte al Berghain di Berlino

di Cinzia Colazzo*

La mia prima volta al Berghain è stata non programmata.

Nel pomeriggio ero andata a trovare un’amica presso il suo banco al mercato. Dopo aver salutato tutti i colleghi concedendosi ancora una birra, mi convince ad accompagnarla al Berghain, il tempio della musica elettronica; prima però vuole tornare da lei per bere due caffè. Indugia così tanto che alla fine usciamo di casa quasi alle due di notte – sicuramente per non andare al club “troppo presto”. Io ho una giacchetta nera ridicolmente leggera, e lei mi presta un mantello di lana sintetica, con il risultato che sembro una nonna incinta.

Da Britz pare di non poter arrivare mai. A Ostkreuz bisogna cambiare. Fa già freddo e attorno a noi circola la dubbia gente della notte berlinese: gruppi di ragazzi con le bottiglie di birra in mano, tifosi che urlano cori da stadio, uomini persi che parlano da soli rispondendo a una voce immaginaria; ubriachi; giovani diretti a Warschauer Straße. Arriviamo davanti al Berghain alle tre.

Esistono in rete molti ridicoli articoli che dispensano consigli su come superare la selezione al Berghain. In coda verso il tempio sono così presa dalla penosa scena (i selezionatori falcidiano potenziali avventori senza misericordia, e questi giungono le mani in preghiera supplicando di poter entrare), da non accorgermi che è arrivato il mio turno. L’uomo all’ingresso, slanciato, muscoloso e scuro di capelli, che affianca un buttafuori druidico, certamente famoso nel mondo per il suo ruolo (“Che lavoro fai? il medico, l’insegnante, il cantante?” – “No, faccio il selezionatore del Berghain”), mi rivolge una domanda in tono sprezzante, in modo così sintetico che io non la colgo. Lo guardo in modo tranquillo. “Ehi, parlo con te. Sei sola?”. Certo, sono sola. Bisogna rispondere così, mi aveva spiegato la mia amica. Non lasciano entrare coppie o gruppi: forse un individuo autonomo e a sé stante può essere più interessato alla buona musica elettronica che all’evento mondano. Sono consapevole di avere un cappotto da nonnetta, ma avanzo di qualche centimetro il piede destro, così che si veda che sotto ho gli stivali neri. Passo la selezione. Ai margini un gruppo di francesi si lacera in un conflitto morale: i due ragazzi sono passati, mentre le due biondine no, e ora i maschi devono decidere se sprecare la loro occasione di accedere al tempio o seguire le ragazze. In ogni caso, sono davvero troppo giovani, e forse il selezionatore ha giocato con loro pur intendendo mandare via tutti (sono sicura che alla lunga un lavoro di quel tipo possa fornire competenze psicologiche finissime).

Una volta dentro, si viene sospinti in un’area buia e spoglia, dove due guardiani del tempio, un uomo e una donna, aprono le borse e buttano via tutto quello che loro ritengono inammissibile, soprattutto le bevande; poi passano le mani sul corpo per controllare che non ci siano oggetti con cui ferire o forse armi. Superato il controllo, e lasciato il soprabito al guardaroba, si può ascendere al cuore del tempio, attraverso una lunga scala metallica. Salendo, ci si immerge sempre più profondamente nel buio e nella nudità del luogo, riempito di fumo, luci movimentate e detonazioni elettroniche.

Ci sono due sale, e vari angoli più appartati, una grande piattaforma che funge da altalena vicino al bar e pochi cubi su cui sedersi. Ma il cuore pulsante del tempio è lo spazio al centro, alto diciotto metri, dove un impianto audio prodigioso sbatte contro il cemento armato suoni cupi e metallici, avvolgendo gli avventori in un sisma sonoro. Per me è troppo. Non sento più il cuore, perché è come se i potenti watt lo assorbissero e lo dilatassero, estraendolo dalla cassa toracica. Mi rifugio per qualche minuto sull’altalena, e intanto osservo gli altri. Ci sono tranquille coppie che sorseggiano acqua dondolando sulla stessa piattaforma (perché qui e non sotto le stelle?), gruppi di amici che bevono discretamente, un ragazzo muscoloso che si è rivoltato la maglietta dietro la nuca, scoprendo il petto, una ragazza dal corpo sinuoso e scultoreo, bellissimo, avvolto in una guaina di pelle da giaguaro nero; nessun vestito di paillettes, nessun tacco a spillo, nessuna esposizione di cattivo gusto. Tutti sono assorbiti dal buio, dalle nubi fumose, attraversati da tagli di luce rossa o da lampi improvvisi. Decido di provare a stare per un po’ al centro, sotto la fonte di vibrazioni. Ognuno ha poco spazio per sé e si muove appena: non è una vera danza, è un dondolio di assorbimento sonoro. Cerco di stare attenta alla musica, seguendola con gli occhi chiusi. Il DJ sta cercando di dire qualcosa, lavora, improvvisando e ammorbidendo, ad un’architettura complessa, che però ha un fine; sento come avvolge di ritmi irregolari flussi interrotti di melodie, sollecitando tutti gli organi interni uno ad uno. Il DJ non solleva mai lo sguardo, indossa degli occhiali con la montatura bianca che sono come una maschera da saldatore. Lui non salda, ma spacca, divide il ritmo irregolarmente, mentre un conglomerato di bassi altera la fisiologia del corpo. Non pensare, fidati delle scosse sintetiche, dondolati mentre il Dio-suono irradia dal centro vibrazioni neuro-linfatiche.

Mi sono alzata alle sei, e ora sono quasi le sei del giorno dopo. Come fanno gli altri ad andare avanti senza cedimenti? Mi torna in mente la frase con cui mi avevano presentato il club underground: il Berghain senza la droga non esisterebbe. Non almeno in questo modo. Decido di scendere dal luogo sacro del tempio al piano inferiore e davanti al guardaroba trovo dei divani su cui provo a dormire mezz’ora. Della mia amica ho perso le tracce, è impossibile trovare qualcuno sotto i colpi dei raggi psichedelici. Dopo un poco viene portata a braccia una ragazzona bionda, trascinata fuori da due uomini e adagiata su un divano. La ragazza ha gli occhi aperti, ma è come se non reagisse, i piedi non la sorreggono, e scivolano sul pavimento mentre i due la traggono fuori dall’influenza del Dio-suono. La lasciano lì, io riprendo sonno. Dopo qualche minuto viene una donna, silenziosa e dallo sguardo fermo. Mi dice: Vai a casa. In effetti è quello che voglio fare, sto solo aspettando l’alba per non uscire nel buio. Poi va dalla ragazza in trance (immagino per sostanze assunte), le si siede accanto e le fa un discorso pacato, in inglese. Mi dico che le vere star là dentro non sono i geni della techno, non l’impianto 6.1 surround, ma i professionisti che lavorano impeccabilmente in un luogo opaco e alterato perché non succeda niente di grave a nessuno.

La notte al Berghain mi lascia un senso di inquietudine. Mi vengono in mente pensieri distruttivi, analogie con i bombardamenti, con le folle ammaestrate. Bagni di suono come bagni di propaganda. Penso che la gente sia soddisfatta nello status di seguace, sotto lo sferzare di impulsi forti, di pugni come di sismi elettronici. Quando esco trovo ancora la coda, e le stesse discussioni di chi non passa la selezione. La gente arriva e va in continuazione, entra alle dieci di sera, alle due, alle sei del mattino. Alcuni entrano il venerdì ed escono la domenica. Si chiudono in un mondo parallelo, di cemento armato, dove non esiste più il giorno. All’uscita mi viene incontro la luce sottile e ancora pallida dell’alba. Passo la coda, l’imbiss, la fila di taxi, le facciate dell’ostello, e provo sollievo per strada. Improvvisamente la città ha sputato fuori della gente comune: persone che alle sette, con le facce lavate e le valigette o le borse, vanno al lavoro di sabato mattina. Nella stazione metropolitana però ci sono i segni della notte appena passata (che lì dentro, nel Berghain, non finirà che fra due giorni): esplosioni di vomito, bottiglie di birra per terra, sputi, sacchetti di carta residui, un paio di ragazze con le calze nere smagliate, ovunque tracce di passaggio umano. Il personale della metropolitana si muove con grandissimo spirito in mezzo a tutto questo. Seduta in un vagone semivuoto, ritrovo altri personaggi persi, uomini che transitano con buste di plastica e una bottiglia di birra aperta, pieni di parole che si affollano in testa e che fuoriescono dalla bocca in sussurri luciferini. Voglio solo tornare a casa, lavarmi via il puzzo di fumo e dormire….

(questo articolo appare in una versione più lunga sul repository di Cinzia Colazzo che trovate cliccando qui

*Cinzia Colazzo vive a Berlino da alcuni anni con i suoi due bambini. Cura progetti pedagogici, è pianista, filosofa e segue seminari in campo terapeutico. Resta nella metropoli per incontrare storie del mondo e visioni d’Europa. Contatti: golboim@gmail.com

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Foto di copertina: Berghain at Night / Berlin © Michael Mayer CC BY 2.0